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Nel dicembre 1386 papa Urbano VI se ne va da Genova a Motrone, nel litorale di Pietrasanta. Alla vigilia di Pasqua 1387 entra a Lucca, restandovi sino al 22 settembre 1387. Con lui sono dieci cardinali.
Nel frattempo a Genova, in una stalla da cavalli, sono rivenuti nove cadaveri, cinque dei quali sono dei cardinali che il papa «avea tenuti lungamente e in misera prigione» per i contrasti, mentre gli altri quattro sono di grandi prelati. Questo leggiamo nella «Cronica volgare di Anonimo Fiorentino già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti» riedita nel 1915.
Dall'esame dei corpi, pare emergere che Urbano VI prima li fece imbavagliare, e poi sotterrare ancora vivi. Secondo altre testimonianze, li avrebbe fatti uccidere prima di farli sotterrare. Il papa si difende: volevano uccidermi.
Sulla famiglia a cui appartiene Bartolomeo di Pietramala, si legge nella stessa «Cronica»: «Aveano quegli da Pietramala, cioè quella famiglia lungo tempo signoreggiata con le loro ladronaie tutte quelle contrade, e molestate, e rubate, e guaste. Ma la verità era, che tutte le Castella, che tenevano, erano del Comune di Arezzo, e però le vollono i Fiorentini».
Un'altra notizia va sottolineata: nel 1385, «Bartolommeo di Mess. Magio di Pietramala a Firenze liberamente e se e le sue terre nelle mani del potere di Firenze rimette». I Tarlati nel 1335 avevano perduto il governo di Borgo San Sepolcro. Galeotto I Malatesti, il 7 luglio 1371, compra per 18 mila fiorini lo stesso Borgo San Sepolcro. Galeotto I versa la somma al fratello del papa Urbano V, quell'Anglic de Grimoard divenuto popolare come «Cardinale Anglico» quando è Legato pontificio in Italia tra 1368 e 1371, con il vicariato generale su Bologna e la Romagna dal primo marzo 1368, dopo aver retto il vescovado di Avignone (1362) e guidando dal 1367 quello di Albano.
Anglic de Grimoard compone nel 1371 la celebre «Descriptio civitatis Bononiensis eiusque comitatus». A fianco dell'Anglico a Bologna il 5 gennaio 1368, quando prende possesso della carica legatizia, troviamo proprio Galeotto I e suo nipote Pandolfo II Malatesti, figlio del di lui fratello Malatesta Antico Guastafamiglia.
Morto Urbano V nel 1370, l'Anglico segue il partito dell'antipapa avignonese Clemente VII (Roberto di Ginevra, 1342-1394), eletto il 20 settembre 1378, e passato alla storia per il massacro di Cesena con quattromila vittime, compiuto nel 1377 come Cardinal Legato (dal 1376) e capo dei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere una rivolta popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati.
«Il cardinale cominciò con l'arruolare al servizio della Chiesa le bande dei mercenari bretoni di Jean de Malestroit e di Silvestro Budes, che, rimaste senza ingaggi per la stasi nel conflitto franco-inglese, minacciavano allora di devastare la valle del Rodano e la stessa Avignone (maggio del 1376)» spiega il suo biografo M. Dykmans (DBI, 26).
Il fenomeno dei mercenari riguarda allora anche i Pietramala: «i capitani fiorentini di Arezzo si trovarono poi a dover fronteggiare le scorrerie e i saccheggi nei territori del vecchio contado da parte di bande di briganti coordinate e protette dalle stirpi signorili dell'Appennino, prima tra tutte quella dei Tarlati di Pietramala, ancora restie ad accettare l'egemonia fiorentina in quell'area» [A. Zorzi, p. 193].
Torniamo alla pagina di Dykmans: «I contingenti di venturieri, che il cardinale di Ginevra passò in rivista a Carpentras, ricevettero per due mesi uno stipendio di 31.000 fiorini complessivi; un nuovo contratto, stipulato nell'estate del 1376, prevedeva una condotta di sei mesi ed un soldo di diciotto fiorini mensili per ogni "lancia". Preparata in tal modo la spedizione, il legato mosse quindi dalla Provenza, attraversò il Delfinato, le Alpi, la Lombardia, e si presentò nell'Emilia alla testa del suo corpo d'esercito forte di circa 10.000 uomini, preceduto da una fama di selvaggia ferocia e di efficienza militare».
Nelle cronache bolognesi del tempo, si legge: «Come la cità de Zexena fuo metuda a sacomano e vituperata. 1377. Nota che del mese de febraro fuo comenzato uno romore in la cità de Zexena tra gli Bertoni e 'l popolo, i quali Bertoni erano soldati della Ghiexia. El chardenale de Ginevera [Roberto di Ginevra] era nella murata della dicta citade. Per la quale cosa fuoron morti de li Bertoni circha 400 huomeni e gli altri se ne fugino nella murata e mandono a Faenza per gli Inghelese che igli li desseno secorso. Ancora mandono per lo conte Alberigho da Barbiano, ch'era a Chunio con 5 lanze, a posta del marchese da Ferara. La qual zente, andata a Zexena, entrarono dentro per la murata e ucciseno molti huomeni, e molte femine sforzaron e puti picholi, e robaron tuta la citade. El popolo fugì alle mure e butavanse zoso del muro per schampare sua persona. E per questo modo remase la cità de Zexena vituperada».
Un'altra «Cronaca», questa volta riminese, è riassumibile in questo drammatico passaggio: «Chi uccideva, chi rubava, chi vituperava, e le belle femmine ritornava dentro, e tenevasele. Sicché non rimase né uomo, né femmina in Cesena. E pigliarono più di mille mammoletti, e mammolette, e poson loro la taglia. Poi si posero a rubare la Cittade, e con le carra mandavano a Faenza tutto il miglioramento, che lì era. Poi vendevano a i Forlivesi, a i Ravignani, agli Ariminensi, a i Cervesi tutto l'altro mobile. In breve a dì XV d'Aprile non vi era rimasto né grano, né vino, né olio, se no quanto vi addicevano i montanari. […] E così fu disfatta tutta la Terra; tutti i Religiosi e Religiose furono morti, presi e rubati. E vennero in Arimino circa otto mila tra piccoli e grandi, e tutti andavano mendicando per limosina…».
Osserva L. Tonini (IV, 1, pp. 205-206): se «Rimini rimase illesa» dalla tempesta politico-militare, lo so deve «alla prudenza, al potere, ed al merito di Galeotto». Dalla critica storica contemporanea, il sacco dei bretoni a Cesena è invece imputato a Galeotto I che «si trovò, isolato, in prima linea a difendere gli interessi ecclesiastici contro la lega fiorentino-viscontea. L'ospitalità alle truppe bretoni e il sostegno continuo garantito alla curia avignonese attirarono su di lui la pubblicistica avversaria che nel presentare la guerra contro i cattivi pastori della Chiesa come lotta di liberazione nazionale dal giogo della servitù straniera, finiva col dipingere il signore di Rimini come “gallicae tyrannidis defensor et pugil”».
Così scrive Anna Falcioni nella premessa al volume «La signoria di Galeotto Belfiore Malatesti (1377-1400)» (1999, p. XIII).
La sintesi più efficace di quel momento storico è in una frase che introduce il racconto degli eventi nella «Cronaca» riminese: «Odi la gran crudeltade de' Pastori de la Santa Chiesa». È lo stesso giudizio che esprime Muratori: per tutto quanto accadde, fu un «grande sparlare» contro i Ministri della Chiesa.
Sui feroci Brettoni leggiamo negli «Annali» muratoriani: «... un troppo orribile fatto succedette nella città di Cesena, che gran discredito diede all'armi pontificie. Avea quivi messa la sua residenza il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto; la sua guardia era di Brettoni. Nel dì primo di febbrajo perché uno di questa mala gente volle per forza della carne da un beccajo, si attaccò una rissa. La disperazione avea preso quel popolo, perché i Brettoni, dopo aver consumato tutto il distretto, erano dietro a divorar anche la Città. Trassero a questo rumore i cittadini in ajuto del lor compatrioto, e gli altri Brettoni a sostener il loro compagno. Divenne perciò generale la mischia, e più di trecento di quegli stranieri rimasero uccisi. Il Cardinale pien di furore si chiuse nella Murata, e mandò per gl'Inglesi dimoranti in Faenza, che tosto corsero a Cesena, ed ebbero ordine di mettere a fil di spada quel misero popolo. Con dugento lance vi arrivò ancora Alberico conte di Barbiano, che era al servigio della Chiesa. Corsero costoro per la terra, e fecero ben quei cittadini disperati quanta difesa poterono, ma soperchiati dall'eccessivo numero di que' barbari, non poterono lungo tempo reggere all'empito loro. Non vi fu allora crudeltà, che non commettessero i vincitori; fecero un universal macello di quanti vennero loro alle mani, senza risparmiare vecchi decrepiti, fanciulli, religiosi, ed anche donne pregnanti. Dalla loro sfrenata libidine niun Monistero di sacre Vergini andò esente; tutto in fine fu messo a sacco Chiese e case. Fu creduto che circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore; fuggirono quei che poterono; e l'Aucud , per isgravarsi alquanto da sì grave infamia, mandò un migliajo di Donne scortato fino a Rimini, ritenendo quelle, che più furono di soddisfazion di que' cani. Circa ottomila di que' miseri fuggiti si ridussero a Cervia e Rimini limosinando, perché spogliati di tutto. Grande sparlare che fu per questo de' Ministri della Chiesa. Ma né pur collo spoglio di Faenza e Cesena si saziò l'ingordigia di questi diabolici masnadieri».
Muratori ricorda che Bernabò Visconti «per maggiormente assodare nel partito suo e de' Fiorentini, Giovanni Aucud, e il Conte Lucio Tedesco da Costanza, diede a cadaun di loro in Moglie due sue Figliuole bastarde»
Di fondamentale importanza per comprendere l'evento cesenate e collocarlo nel contesto politico italiano, resta questa pagina di Gina Fasoli (1975): «Preoccupava particolarmente l'affermazione dell'autorità papale in Romagna; la formazione di un potere unitario e solido proprio in quei territori a cui da tempo si indirizzavano le aspirazioni politiche fiorentine e che comunque, finché erano divisi e discordi, offrivano molte possibilità di penetrazione e di sfruttamento. I timori ed i sospetti crebbero quando si profilò come imminente il ritorno della S. Sede da Avignore in Italia […]». Prima c'è l'alleanza tra Firenze ed i Visconti, poi l'opera per far ribellare la Romagna: «la repressione guidata dal cardinale Roberto di Ginevra al comando di reparti bretoni e francesi si scatenò e culminò nel massacro di Cesena (1377)».
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Per F. A. Becchetti [«Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa», I, Fulgoni, Roma 1788, pp. 119-121], l'ideatore della congiura contro Urbano VI è Pietro Tartaro, Abate di Montecassino e cardinale di Rieti.
Il comitato dei ribelli ad Urbano VI, secondo Muratori, è più vasto di quanto solitamente si racconta, e comprende altri personaggi, oltre i cinque cardinali uccisi a Genova ed il loro collega inglese liberato dal Papa.
Di certo due ribelli particolari sono il nostro Galeotto da Pietramala e Pileo da Prata, il ricordato arcivescovo di Ravenna: «amendue conoscendo, a che pericolo fosse esposto, chi solamente cadeva in sospetto presso un Pontefice sì violento, se ne fuggirono da Genova…», scrive sempre Muratori.
Eugenio Gamurrini, nell'«Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre», definisce Galeotto di Pietramala «ornato di una finissima prudenza, e di un coraggio incomparabile, per il che si era reso in posto di gran stima, e desiderabile a tutti i Principi».
Pileo da Prata «era savio, e malizioso, e ardito molto», si legge nella «Cronica» di Piero di Giovanni Minerbetti, dove di Galeotto si sottolinea che «era molto giovane».
Il Cardinal Galeotto non compare sulla scena. È troppo saldo il legame politico tra la Chiesa (fosse essa di Avignone o di Roma) ed i Malatesti, per procurargli fastidi. È troppo acuto il giovanissimo porporato per fare mosse avventate e pericolose non soltanto nei riguardi della sua persona fisica, ma pure per la famiglia a cui apparteneva la madre.
Pileo e Galeotto scappano perché il papa li accusa d'averlo voluto uccidere, avvelenandolo: «E questo disse Papa Orbano in Consistoro in loro presenza, essendovi tutti gli altri cardinali, e molti altri uomini presenti. Laonde li detti cardinali si fuggiro da Genova per paura della furia sua».
Il papa li scomunica, privandoli del cappello e di ogni beneficiio, «e fece questo predicare in tutte le Terre d'Italia, e altrove». Saputo questo, i due cardinali partono dalla Savoia e vanno ad Avignone da Papa Clemente, «e fu fatto loro grande onore da lui, e da tutti gli altri cardinali, che con lui erano».
Secondo Panvinio, Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto «in gratiam sororis suae», moglie del proprio nipote Francesco Frignano.
Di questa moglie, sorella del cardinale, non si hanno tracce. Tre sono le sorelle di Galeotto di Pietramala: Elisa morta nel 1366, Taddea che si sposa nel 1372, e Caterina che s'accasa (forse) nel 1393. Quindi potrebbe essere Caterina ad esser coinvolta nella vita sentimentale di Francesco «Butillo». Il quale però poi prende per moglie Raimondina del Tufo, mentre Caterina va a nozze con Nicola Filippo Brancaleoni.
Per Francesco Prignano si legge pure che a Napoli rapì da un monastero «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento»(«Storia universale», XIII, p. 210).
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Se non scandalizza tuttora la vicenda di Girolamo da Praga, ancora più orribile in punta di Diritto di quella del suo maestro Huss, certo si può omettere di ricordare come essa nasca da uno spirito di intolleranza che pone le sue salde radici proprio nell'operato di Urbano VI.
Il quale nel luglio 1385, si legge in Gregorovius, fa uccidere a fil di spada il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio, poi abbandonato come un cane lungo la via.
Lo aveva fatto torturare per sapere qualcosa circa una congiura che gli era stata descritta come progettata contro di lui, dal cardinale Tommaso Orsini di Manoppello. Le ferite subìte e l'età rallentano Sidonio nel viaggio a cavallo da Nocera verso Salerno, che il Papa ha intrapreso portandoselo dietro, per rifugiarsi a Genova. Urbano VI sospetta che il suo procedere lento sia una simulazione per un tranello.
Ed Urbano VI non ascolta la voce della coscienza neppure dopo l'omicidio, lasciando Sidonio senza una sepoltura.
Altre vittime indirette della politica di scontro del Papa con il re di Napoli, sono quelle provocate da quest'ultimo, ai danni di quei sacerdoti che, obbedendo al Pontefice, dovettero credere nell'interdetto di quest'ultimo ai danni del sovrano.
Nel giugno 1383 Urbano VI aveva lasciato Roma per muovere contro il nuovo re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo.
Il cardinale Bartolomeo Mezzavacca, Vescovo di Rieti, giunto a corte invitato dal re ormai da un anno (assieme ad altri due religiosi…), cerca di impedirgli l'ingresso nel Regno di Napoli. Per questo il 15 ottobre successivo è privato dal Papa del titolo cardinalizio, e sottoposto a processo. Il 7 gennaio 1384 Mezzavacca è trasferito a Napoli con una galera, con altri tre cardinali, Donati, Cogorno e Altavilla. I primi due finiscono uccisi a Genova
Urbano VI il 24 maggio 1384 è a Nocera presso il nipote «Butillo». A Nocera in estate arriva anche Mezzavacca che poi torna a Napoli con alcuni cardinali. Il 21 gennaio 1385 Mezzavacca confessa sotto tortura le colpe sue e di altri avversari del Papa.
Nella primavera seguente Mezzavacca prepara un documento contro Urbano VI, firmato anche da Pileo da Prata (arcivescovo di Ravenna), Landolfo Maramaldo (che non si muoverà da Napoli), Luca Gentili e Pancello Orsini.
A Genova nella notte del 15 dicembre 1386 sono cinque le sentenze di morte eseguite per gli accusati di quella congiura. Sono gli Arcivescovi di Taranto (Marino del Giudice) e di Corfù (Giovanni d'Amelia), ed i cardinali di Genova (Bartolommeo di Cogorno), San Marco (Ludovico Donati) e Santo Adriano (Gentile di Sangro), «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», osserva Ludovico Antonio Muratori.
Soltanto il loro collega inglese Adam Easton si è salvato, grazie all'intervento del proprio re Riccardo II che ne aveva chiesto la liberazione.
Molti anni dopo, morto Urbano VI, un testimone racconta che essi «in carcere iugulati, et in stabulo equorum clam noctu sepulti fuerint», come riferisce Gobelino Persona (1358-post 1418, autore del «Cosmodromium» edito nel 1559 a Francoforte), a cui era stata fatta la confidenza.
Dietrich von Niem, scrittore della cancelleria pontificia, «presente non poté reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi secondo lui confessò. Furono rimessi nelle carceri coll'ossa slogate, a patir fame e sete e gli altri malori della prigionia». Così leggiamo in Muratori.
Tanta ferocia del potere papale nasce pure dal fatto che i cinque cardinali uccisi hanno tentato una fuga da Genova, come racconta Gregorovius.
Quella ferocia rispecchia il clima in cui viveva la Chiesa. La fine della cattività avignonese avviene nel 1377 con il predecessore di Urbano VI, Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort, eletto il 30 dicembre 1370, incoronato il 5 gennaio 1371). Trasferitosi a Roma il 17 gennaio 1377, muore il 28 marzo 1378.
Appena giunto in Italia Gregorio XI promuove una feroce repressione delle rivolte nei territori della Chiesa. Domata Bologna, dai Bretoni è terribilmente saccheggiata Cesena, dove «circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore», come si trova negli «Annali» muratoriani. Il massacro di Cesena è opera del Cardinal Legato Roberto di Ginevra, capo di quei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere la ribellione popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati. E Roberto di Ginevra il 20 settembre 1378 diventa l'antipapa avignonese Clemente VII.
La fine della cattività avignonese è però soltanto un fatto formale che non modifica una struttura ampiamente segnata da quella che Franco Gaeta definisce «la degenerazione burocratico-legalista» che allora si manifesta come avidità, fiscalità e «la pressoché diabolica mondanizzazione dell'istituto ecclesiastico».
La contestazione in nome della verità evangelica è affrontata a Costanza non con un collettivo «mea culpa» ma con quei roghi che restano simboli di un indirizzo non soltanto religioso ma pure culturale.
Negli anni successivi al Concilio di Costanza (1414-1418), la «coscienza di una decadenza politica e religiosa inarrestabile», come scriveva Cesare Vasoli, nutre la ribellione culturale che approda all'Umanesimo, con «un rifiuto radicale del passato cui doveva corrispondere l'instaurazione di altre forme di moralità».
Ma sul lungo periodo s'intravedono le fiamme in risposta alla predicazione di Tommaso Müntzer che ordinava di usare la forza «finché il fuoco arde», per non lasciar raffreddare il sangue sulla spada. L'esito è nel massacro dei contadini compiuto dall'artiglieria del cattolico duca di Sassonia.
Prima di quelle di Müntzer, ci sono le tragiche parole di Martin Lutero «Contro le bande brigantesche ed assassine dei contadini» (1525), con l'invito ai principi feudali ad usare spada e collera contro di loro: «Ammazzate, scannate, strangolate quanto potete…» (F. Gaeta, 1975). Prima ancora, il 23 maggio 1498, ci sono state le fiamme fiorentine per Girolamo Savonarola. Poi verranno quelle romane per Giordano Bruno, il 17 gennaio 1600.
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A ventidue anni, l'11 settembre 1378, il protonotario apostolico Galeotto Tarlati di Pietramala è nominato cardinale da papa Urbano VI, eletto l'8 aprile dello stesso anno.
Il pontefice ha delegato ai Signori d'Italia e d'Europa la scelta dei candidati alla porpora. Il nome di Galeotto è suggerito da suo nonno materno, Galeotto I Malatesti.
Sua figlia Rengarda Malatesti nel 1349 ha sposato Masio Tarlati di Pietramala, la cui famiglia ha governato Arezzo dal 1321 al 1337. Masio è Magistrato municipale di Rimini dal 1346 al 1347. Nel 1347, sempre a Rimini, Masio è fatto cavaliere dal re d'Inghilterra.
Galeotto I Malatesti è personaggio ben conosciuto nel mondo ecclesiastico, come dimostra la sua visita al nuovo pontefice Urbano VI. Partito da Rimini il 29 maggio, Galeotto I Malatesti si trattiene a Roma sino alla fine di luglio dello stesso 1378. Più che una semplice visita, quella di Galeotto I è una speciale missione presso i cardinali francesi dissenzienti che contestano l'elezione di Urbano VI. E che poi il 20 settembre eleggono l'antipapa Clemente VII, ovvero il cardinale Roberto di Ginevra, che si trasferisce ad Avignone nel giugno dell'anno successivo.
Roberto di Ginevra è ben noto in Romagna. Come cardinal Legato è stato inviato da Gregorio XI, il predecessore di Urbano VI, nel 1376 con un esercito di Bretoni a combattere nel Bolognese. Nel 1377, il 17 gennaio, Gregorio XI torna a Roma e promuove una feroce repressione delle rivolte nei territori della Chiesa: domata Bologna, i Bretoni terribilmente saccheggiano Cesena, dove si registrano quattromila vittime.Papa Urbano VI, al secolo Bartolomeo Prignano, delegando ai Signori d'Italia e d'Europa, la scelta dei candidati cardinali, dimostra subito la sua linea politica: essere non tanto il successore di Pietro nell'obbedienza al Vangelo, quanto un capo politico che vuole gestire il potere, favorendo non soltanto i potenti ma soprattutto la propria famiglia, in particolare il proprio nipote Francesco Prignano, soprannominato Butillo, che in spagnolo significa «pallido».
Per realizzare il suo progetto non guarda in faccia a nulla, e ricorre ripetutamente all'omicidio di chi considera nemico od ostacolo ai suoi progetti. Di questi tragici eventi spesso ci si dimentica guardando solamente alla nascita del Grande Scisma che domina la scena ecclesiastica tra 1378 e 1418, per porre fine al quale la Chiesa accende i roghi in nome di Cristo.
Il 6 luglio 1415 a Costanza, dove si tiene quel celebre Concilio per dare alla Chiesa un solo Papa contro i tre in circolazione dal 1409, è bruciato vivo Giovanni Huss, seguace di Wycliff e capo di una rivolta autonomistica in Boemia che impensieriva l'imperatore Sigismondo. Huss era stato invitato a Costanza con un salvacondotto dell'imperatore. Fu attirato nella trappola dai padri conciliari che, non paghi del rogo su cui era stato giustiziato, fecero riesumare le sue ceneri per disperderle al vento come ultimo oltraggio.
Il 29 maggio 1416 lo stesso destino è riservato ad un seguace di Huss, Girolamo da Praga. Ne scrive Poggio Bracciolini in una celebre lettera a Leonardo Bruni. Girolamo è vissuto per 350 giorni «in durissimis carceribus, in sordibus, in squalore, in stercore, in compendibus, in rerum omnium inopia». La sua reazione costringe ad ascoltarlo: era venuto al concilio spontaneamente per scolparsi: «Addiderat inseuper se sponte venisse ad concilium ad se purgandum».
Girolamo difende Giovanni Huss. Nulla egli aveva sostenuto contro la Chiesa, dichiara: «ait nihil illum adversus Ecclesie Dei statum sensisse». Secondo Girolamo, Huss aveva soltanto lottato contro l'abuso dei preti, contro la superbia, il fasto e la pompa dei prelati: «sed adversus abusus clericorum, adversus superbiam, fastum et pompa prelatorum». La descrizione della morte di Girolamo tra le fiamme si sintetizza in queste parole: «vir praeter fidem egregius».
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Bartolomeo Malatesti, un "dimenticato" Vescovo di Rimini (1445-1448).
Il titolo di queste pagine nasce dalla conclusione di ricerche biografiche per un personaggio "dimenticato", nel senso che, dovunque, si legge che della sua famiglia di provenienza non sappiamo nulla.
L'unica fonte che contiene una notizia fondamentale è Frate Bernardino Manzoni il quale, nel suo "Caesena Sacra" (Pisa 1643, I, p. 72), scrive che Bartolomeo Malatesti è "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater". Di Pandolfo Malatesti, fratello di Bartolomeo, si precisa poi che "anno 1391 Patricius, Consiliarusque Caesenaticenis Urbis erat".
Dal 4 gennaio 1391 i fratelli "Carlo Pandolfo Malatesta e Galeotto di Galeotto Malatesti" sono vicari di Cesena (Mazzatini, p. 325). Quindi Bartolomeo Malatesti è pure lui figlio di Galeotto I (+1385), nato da Pandolfo I, figlio a sua volta di Malatesta da Verucchio.Tutto il nuovo che si può scrivere sopra Bartolomeo Malatesti Vescovo, è in queste poche righe di Frate Bernardino Manzoni. Altre notizie, non ne ho trovate, tranne quelle di cui dirò per esaminare un altro passo del "Caesena Sacra", dove si attribuisce al nostro Bartolomeo anche il titolo di Vescovo di Dragonaria, confuso da Frate Manzoni con un bolognese, un altro Bartolomeo, che però faceva di cognome Gardini, e che scompare nel 1403.
La mancanza di altri dati biografici e la necessità di precisare le informazioni contenute nel "Caesena Sacra", mi avevano suggerito il titolo di queste pagine, appunto "Storie senza storia", che in un primo momento però non mi convinceva molto. Esso mi sembrava contenere in sé la contraddizione logica tra quella parola plurale che ha valore affermativo, e le altre due della precisazione che sottraevano alla prima la sua stessa sostanza.
Mi chiedevo, insomma: ma se sono Storie possono mancare di storia, ovvero di un contenuto che in effetti non c'è? Il paradosso logico mi si è svelato come verità metodologica soltanto grazie alla lettura di un breve saggio del prof. Nicola Gardini intitolato "Parole e omissioni". La luce che ha riacceso la speranza di poter mantenere quel titolo, deriva da questo passo di Nicola Gardini: "La lacuna mira non alla diminuzione, ma allo sviluppo".
Gardini si riferisce alle lacune dei testi narrativi o alle mutilazioni delle opere d'arte come la Venere di Milo. E richiama il "De oratore" dove Cicerone spiega il ruolo del lettore, come quello di un cercatore d'oro che va a scavare dove il testo gli indica.
Il lettore della biografia di Bartolomeo Malatesti Vescovo di Rimini, deve scavare pure lui, per scoprire così appunto il "Caesena Sacra". Dove un'ulteriore azione ci porta lontano, a constatare (come si è detto) che Frate Bernardino Manzoni confonde il nostro Bartolomeo con un altro Bartolomeo, quando lo definisce Vescovo di Dragonaria. Il buon Manzoni chiama a testimone un autore che non ha però nessuna colpa.
Frate Bernardino Manzoni racconta pure che il nostro Bartolomeo è stato nel 1397 Vescovo di Dragonaria, indicando come fonte bibliografica un'opera dell'emiliano Pietro Ridolfi da Tossignano (1536-1601), "Historiarum Seraphicae Religionis libri tres", edito a Venezia, "apud Franciscum de Franciscis Senensem", nel 1586.
Ridolfi, nel II libro della sua opera, tratta dell'origine dei Malatesti e ricorda la presenza di Bartolomeo Malatesti a Rimini ("Custodia Foroliviensis", pp. 268-269).
A p. 266 invece, sotto l'anno 1397, si ricorda un "magister Bartholomeus episcopus Dragonarie", attivo a Bologna. Non dice, Ridolfi, che sia Bartolomeo Malatesti come invece leggiamo in Manzoni. Il quale Manzoni scrive appunto "Rodulphio teste", ovvero per testimonianza di Ridolfi, relativamente a Bartolomeo Malatesti. (Nel III libro, p. 333, incontriamo una breve biografia del ricordato Pietro Ridolfi da Tossignano.)
La "mutilazione" di questa seconda (falsa) notizia m'ha obbligato a scavare ancora, facendomi raccogliere materiale molto interessante che costituisce una mappa di notizie tra il religioso ed il politico, molto simile a quelle che si possono tracciare per le vicende malatestiane tra fine Trecento ed inizio Quattrocento.
Alla fine, le parole di Gardini mi hanno convinto a lasciare il titolo che avevo pensato e poi criticato. Tra le stranezze o le casualità della Storia, ricordo en passant che quello studioso di letteratura ha lo stesso cognome del Bartolomeo Vescovo di Dragonara, appunto Gardini.Torniamo al principio di tutte le cose, almeno a quelle che riguardano il nostro Bartolomeo Malatesti figlio di Galeotto I (defunto il 21 gennaio 1385). Per pura prudenza biologica, la nascita di Bartolomeo può essere collocata soltanto prima di questo 1385. I biografi ci raccontano che Bartolomeo quando scompare il 5 giugno 1448 "morì vecchio assai", come riporta Luigi Nardi (p. 224) rimandando ai "nostri Storici" e all'Ughelli.
Ad occhio e croce, come dicevano saggiamente i nostri vecchi, e con una botta di conti veloce, non è azzardato collocare la nascita di Bartolomeo circa 80 anni prima del decesso, il che fa ipotizzare una data attorno al 1370.
Di Galeotto I sappiamo soltanto che nel 1323 è promesso sposo ad Elisa della Valletta (le nozze avvengono il 3 giugno 1324). Considerata pure l'usanza di nozze precoci in quel tempo, non possiamo però collocare la nascita di Galeotto troppo vicina a questa unica notizia che abbiamo sui suoi primi anni.
Elisa della Valletta è nipote del governatore pontificio della Marca, Aurelio di Lutrec, e figlia di Gugliemo signore della Valletta. Gli sponsali sono un atto di ringraziamento diretto ai Malatesti per la loro militanza a favore della Chiesa, come osserva Tania Cazzotti.
Accettiamo la lectio autorevole di Anna Falcioni che pensa, "con ogni probabilità", ai "primi anni del Trecento", poco dopo il fratello "Malatesta detto l'Antico, con il quale condivise, in perfetta sintonia, larga parte della propria esistenza". Per l'Antico, detto anche Guastafamiglia, Falcioni colloca la sua venuta al mondo "intorno al 1299".
Da questo punto in avanti procediamo soltanto per ipotesi per quanto riguarda la cronologia di Bartolomeo Vescovo di Rimini, mentre tutti gli altri elementi che elenchiamo, sono rigorosamente documentati nelle storie malatestiane di ieri e di oggi. Tutti queste elementi costituiscono quella mappa di notizie tra il religioso ed il politico, di cui si è prima detto.
Quando nel 1385, scompare Galeotto, i Malatesti hanno vissuto trent'anni di forte esperienza politica, in momenti molto inquieti, a partire dal 1355, quando ottengono il Vicariato in temporalibus di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone, divenendo attori privilegiati della scena italiana. Nel 1387 Malatesta I (o "dei sonetti") di Pesaro presta soldi ad Urbano VI che lo ha incaricato pure di proteggere l'arcivescovo di Ravenna, Cosimo Migliorati, cacciato dalla sua Chiesa. Nel 1404, Migliorati diventa papa Innocenzo VII.
Zoommiamo sui Malatesti che sono Vescovi. Il primo che s'incontra è Leale che occupa due sedi: dapprima a Pesaro (1373) e poi proprio a Rimini (1374-1400). Sono gli anni in cui il bastardino (absit iniuria verbis) Bartolomeo viene al mondo, facendo forse balenare a molti l'idea che una vita conventuale prima ed una carriera ecclesiastica garantita dalla parentela poi, potevano essere strade facilmente praticabili per non far vivere a disagio la povera creatura.
Leale ha qualcosa che lo avvicina a Bartolomeo. Leale è un figlio "spurio" di Malatesta Antico e di una non meglio precisata Giovanna, il cui nome è fatto dallo stesso Leale nel proprio testamento.
Si sa che Leale ebbe un fratello frate, come si legge in L. Tonini (IV, 1, p. 323). Fu legittimato da papa Urbano II il 5 febbraio 1363.
Nella recente "Storia della Chiesa Riminese" (II, pp. 432-433) Enrico Angiolini definisce Leale il "caratteristico cadetto avviato alla carriera ecclesiastica", mentre per Bartolomeo (Vescovo di Rimini, 1445) non esclude "il classico ruolo di figlio naturale legittimato ed avviato alla carriera ecclesiastica".
Nel 1391 Malatesta I di Pesaro è nominato Vicario pontificio della sua città. Nel 1398, per il II semestre, è eletto pure Senatore di Roma. Tre anni dopo lo vediamo aggregato tra i nobili veneziani.
Brillante iter politico registriamo anche il per il ramo riminese dei Malatesti, con quel Carlo, figlio di Galeotto I e quindi fratello del Vescovo Bartolomeo, che nel 1385 è nominato rettore di Romagna e nel 1386 gonfaloniere della Chiesa. Sarebbe troppo lungo ricordare battaglie e guerre che coinvolgono i Nostri. E che ci travolgerebbero anche attraverso semplici cenni. Le diamo per conosciute, ed amen, soltanto per ragioni di spazio.
Nel 1390 nasce da Malatesta I di Pesaro (figlio di Pandolfo II) un infante che riceve il nome del nonno e che sarà famoso nelle storie ecclesiastiche per essere stato amministratore loco Episcopi di Brescia (1414), Vescovo di Coutances in Francia (1418) e poi Arcivescovo di Patrasso dal 1424. Scompare nel 1441. Circa la sede francese, si legge in un interessante saggio disponibile sul web ("La France de 1350 a 1450", p. 125) che non è sicuro che Pandolfo si sia recato effettivamente nella sua diocesi.
Un suo fratello, Carlo (da non confondere con l'omonimo riminese), nel 1416 sposa Vittoria Colonna nipote di Martino V, papa dal 1417 al 1431. Una sorella di Vittoria, Caterina è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro, la cui prima consorte era Rengarda sorella di Carlo di Rimini.
A proposito di scambi di persona, in una storia ecclesiastica francese sui vescovi di Coutances, il Pandolfo che ha quel titolo, è detto figlio di Carlo di Rimini e non di Malatesta "dei sonetti". Il celebre Broglio (Gaspare Broglio Tartaglia, Cronaca (1982 p. 32) addirittura considera l'arcivescovo di Patrasso come padre dei suoi due fratelli Carlo e Galeazzo...
Resta da ricordare l'ultimo Vescovo Malatesti, Antonio, presente a Cesena tra 1435 e 1439. Antonio, vedovo e figlio di Nicolò Filippo di Ghiaggiolo, quarto nella discendenza di Paolo, muore nello stesso 1439. Aveva scelto di assumere l'abito clericale dopo la morte della moglie, come leggiamo in "Caesena sacra", p. 39.APPENDICI
Appendice A. Gli enigmi di Frate Bernardino Manzoni
Frate Bernardino Manzoni (che fu bibliotecario della Malatestiana di Cesena tra 1625 e 1626, come segnalato da A. Domeniconi [1963] e P. Errani [2009]), racconta che il nostro Bartolomeo è stato nel 1397 Vescovo di Dragonaria, indicando come fonte bibliografica un'opera dell'emiliano Pietro Ridolfi da Tossignano (1536-1601), "Historiarum Seraphicae Religionis libri tres", edito a Venezia, "apud Franciscum de Franciscis Senensem", nel 1586.
Ridolfi, nel II libro della sua opera, tratta dell'origine dei Malatesti e ricorda la presenza di Bartolomeo Malatesti a Rimini ("Custodia Foroliviensis", pp. 268-269). A p. 266 invece, sotto l'anno 1397, si ricorda un "magister Bartholomeus episcopus Dragonarie", attivo a Bologna. Non dice, Ridolfi, che sia Bartolomeo Malatesti come invece leggiamo in Manzoni.
Il quale Manzoni scrive appunto "Rodulphio teste", ovvero per testimonianza di Ridolfi, relativamente a Bartolomeo Malatesti. (Nel III libro, p. 333, incontriamo una breve biografia del ricordato Pietro Ridolfi da Tossignano.)
A questo punto se ci indirizziamo alle vicende religiose di Bologna sul finire del XIV sec., scopriamo quanto segue.
1. Nel 1382 è fatto Vescovo di Dragoneria (sì, il luogo è indicato così, e non Dragonaria) un Bartolomeo Gardini (cfr. A. Masini, "Bologna perlustrata", parte II, Bologna, Benacci, 1666, p. 82). In questa stessa fonte si legge che il 7 giugno 1390 Bartoloneo Gardini "fece la Cerimonia di porre la prima pietra per la fabrica del Maestoso nuovo Tempio di S. Petronio di Bologna". E che lo stesso Bartolomeo morì nel 1403. (La fonte è la "Cronaca" di Pietro di Mattiolo, su cui cfr. C. Albicini, "Bologna secondo la Cronaca di Pietro di Mattiolo", pp. 487-506 del II vol., III serie, "Atti e memorie della Regia Deputazione di storia patria per le province di Romagna, a. a. 1883-1884", Bologna 1884. Per l'evento relativo a S. Petronio, si veda a p. 496.)
2. Bartolomeo Gardini risulta ascritto ai Collegio dei Teologi di Bologna dal 1371, e Lettore di Sacra Teologia nell'anno 1376. Cfr. S. Mazzetti, "Repertorio di tutti i professori antichi, e moderni, della famosa università", Bologna, Tip. di S. Tommaso d'Aquino, 1848, p. 296). In Mazzetti si legge pure che Bartolomeo fu Vescovo di Dragonara dal 1382 sino al 1390.
3. È spostata a tre anni dopo l'uscita di scena del Nostro da altro autore, dove leggiamo che appunto nel 1393 Bartolomeo Vescovo di Dragoneria, è espulso a forza dal suo Vescovado, "per aver seguito il partito di Lodovico I d'Angiò". (Cfr. G. Guidicini, "Cose notabili della Città di Bologna", IX, Bologna, Compositori, 1870, p. 364.)
4. Sul cognome Gardini in Bologna, sono utili le parole di S. Mazzetti, "Repertorio" cit., p. 140: il padre Giambattista Melloni nelle sue "Memorie di San Petronio" (1784), p. 106, dubita molto di tale cognome Gardini attribuito a Bartolomeo da vari autori.
5. In Ferdinando Ughelli ("Italia sacra", VIII, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1721, coll. 282-283), del Vescovo francescano Bartolomeo si dice che era figlio di Pietro. La fonte di Ughelli è Francesco Alidosi, cardinale (1455-1511), autore di un testo sui Vescovi bolognesi, p. 36.
6. Circa Draconaria (che significa in latino "grotta") ma anche Dragonaria e Dragoneria, possiamo leggere in varie fonti che la diocesi della località, posta "in finibus Apuliae", era suffraganea della metropolitana di Benevento.Infine la notizia più "sconvolgente" (nel senso che rovescia tutti i discorsi del nostro Frate Manzoni) si trova nel Masini ("Bologna perlustrata", p. 82), che, come si è visto, fa scomparire il Bartolomeo Gardini nel 1403. Aldilà di tutti gli enigmi che possono circondare la biografia del Vescovo Bartolomeo prima del suo arrivo a Rimini, resta importante quanto Frate Bernardino Manzoni suggerisce circa la sua parentela con la casa Malatesti. Restano aperte molte questioni. Se il Vescovo di Rimini non è quel Benedetto morto nel 1403, dove come e quando inizia la sua carriera episcopale?
7. È da ricordare che, in un'opera uscita a Benevento presso la Stamparia Arcivescovale nel 1646, e curata da Giovanni Michele Cavalieri, il tomo primo della "Galleria de' sommi pontefici, patriarchi, arcivescovi, e vescovi dell'ordine de' predicatori", ovvero dei Domenicani, si legge (p. 250): "circa all'anno 1450" il padre Bartolomeo da Bologna fu eletto vescovo di Dragonara nella Provincia di Terradilavoro del Reame di Napoli. Un suo omonimo Bartolomeo da Bologna (p. 251) nello stesso 1450 è Vescovo di Segna in Croazia.
8. Circa Dragonara, riproduco da un saggio disponibile sul web (Gabriele Tardio, "I vescovi de Tartaglis e Macini provenienti dall'abazia nullius di San Giovanni e San Marco in Lamis nelle diocesi di Lesina, Dragonara e Minervino"): "La diocesi di Dragonara ha vissuto vicende difficili che andrebbero studiate più attentamente, perché era una nomina importante, come non ricordare il difficile caso di fra Bartolomeo da Bologna, francescano, che non riuscì ad esercitare il suo episcopato a Dragonara e a Bologna benedisse la prima pietra della basilica di san Petronio".
Tardio nella nota 25 cita varie fonti bolognesi che ricopiamo: "passando ai bolognesi Vescovi ma non Cardinali, entra innanzi a tutti Frate Bartolommeo di Pier da Bologna, dell'Ordine Francescano, Vescovo di Dragonara nel Regno di Napoli dal 1380 al 1390. Fu questi che pose la prima pietra nelle fondamenta della Chiesa di san Petronio in sua patria, dove predicò ed ufficiò sino al 1403, che passò di vita: ed ebbe sepolcro in san Francesco." Salvatore Muzzi, Annali della citta` di Bologna, dalla sua origine al 1796, Bologna 1843, p. 274. "Bologna 7. Giugno (1390.) Il Rev. Fra Bartolommeo Vescovo di Dragonara (22) cantò una solennissima Messa in S. Pietro e in quella benedisse una bella pietra lavorata con l'armi del comune di Bologna, per cominciare di fondare la chiesa nova di s. Petronio e così fu portata alla piazza dove si dovea fare detta chiesa processionalmente.... Dal Lib. II. Provis. fol. 77 (in Archiv. Pub.) abbiamo, che l'anno 1393, a dì 23. Aprile si fece decreto da Magistrati della Città di assegnar al Rev. Bartolommeo di Dragonara Cittadino Bolognese espulso dalla sua Diocesi, ed interdettegli l'entrate sue, lire sessanta d'argento annue per la Messa da celebrarsi tre volte almeno la settimana, pregandolo ad assistere al popolo colla divina parola, e con promessa del primo Benefizio, che fosse per vacare in detta Chiesa: levandogli in quel caso la provvisione delle lire 60. Similmente dal Lib. 9. Introit. & Expens. del Convento di S. Francesco fol. 167, sotto l'anno 1393 7 Settembre abbiamo, che il Vescovo di Dragonaria predicava in Piazza per raccoglier limosine per la fabbrica di S. Petronio. Dragonara, secondo il Baudrand, urbe fuit parva Regni Neapolitani in Provincia Capitanata Episcopalìs sub Archiepiscopo Beneventano, nunc exeisa jacens, e tantum tenuis Vicus, Dragonara dictus, sed Episcopatus suppressut fuit, e Cathedralis Ecclesìa ad ruralem Archipresbyteratum redacta, unita ad Episcopatui S. Severi, teste Ughellio". Giovambattista Melloni, Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, Bologna 1786, p. 401 e s.".
Da Giovambattista Melloni, "Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna", Bologna 1786, p. 401 e s., sono poi ripresi nel testo questi passi, anch'essi da ricordare: "Note sono le vicende di quei tempi torbidissimi: lo scisma dell'Antipapa Clemente, l'occupazione di Napoli, fatta coll'assenso d'Urbano VI dal Re Carlo, appellato dalla Pace, nipote del Re d'Ungheria; l'investitura del medesimo Regno di Napoli, conceduta dall'Antipapa Clemente a Lodovico Duca d'Angiò Zio del Re di Francia, adottato prima per figliuolo da Giovanna Regina di Napoli; le aperte nemicizie, che pattarono tra papa Urbano ed il predetto Re Carlo; la ribellione de' Napoletani, che ricevettero in Napoli Lodovico figlio del predetto Lodovico d'Angiò, coronato Re dall'Antipapa: nelle quali circostanze costretto fu il detto Vescovo a partirti dalla sua Chiesa di Dragonara, e tornarsene a Bologna. Qui egli esercitò diverse funzioni Vescovili, riferite nella Cronaca dal detto D. Pietro di Mattiolo Fabro".9. Sui cronisti bolognesi del Medio Evo, on line è disponibile l'interessante tesi di laurea di Flavia Gramellini (Università di Bologna) su "Le antichità di Bologna di Bartolomeo della Pugliola".Appendice B. Un errore austriaco del 1912
Enea Silvio Piccolomini, nelle lettere pubblicate a Vienna da Rudolf Wolkan nelle "Fontes Rerum Austriacarum" (vol. LXVII, 1912), cita un "Malatesta quidam ex ordine auditorum" che nel 1447 fa il sermone funebre per papa Eugenio IV (p. 254).A tenere un secondo sermone è il Cardinale di Bologna, ovvero quel Tomaso Parentucelli di Sarzana che succede ad Eugenio IV stesso, con il nome di Niccolò V.
In una pagina precedente (179) per eventi relativi al 1433 Piccolomini cita il Vescovo di Rimini che, erroneamente, nell'indice è identificato in Bartolomeo Malatesti (p. 287).
Il Vescovo di Rimini del 1433 è Girolamo Leonardi, frate dell'ordine degli agostiniani. Del Vescovo Leonardi ha scritto E. Angiolini nella recente "Storia della Chiesa Riminese" (II, p. 438), che, di estrazione riminese, fu "di rinomata cultura teologica ma anche [...] diplomatico della cerchia di Carlo Malatesti". La precisazione su Carlo Malatesti torna utile al discorso su Bartolomeo il quale era fratellastro di Carlo.
Il passo più interessante di Piccolomini nelle "Fontes Rerum Austriacarum", è a p. 165, dove si ricorda l'azione svolta per conto della Chiesa da Carlo Malatesti al Concilio di Costanza, e si definisce lo stesso Carlo "uomo di singolare prudenza".Appendice C. Bernardino Manzoni contestato nel 1922
Frate Bernardino Manzoni, nel suo "Caesena Sacra" (Massa e De Laudis, Pisa 1643, I, p. 72) scrive che Bartolomeo Malatesti è "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater".
Questa notizia è infondata, secondo Aldo Francesco Massera (curatore nel 1922 delle "Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV", tomo XV, 2 di "Rerum Italicarum Scriptores").
Il motivo è spiegato da Massera nella nota 1 di pagina 105: "nessuno dei Malatesti di Sogliano portò il nome di Pandolfo per tutto il secolo XIV e il XV"; inoltre "il titolo comitale fu concesso loro solo nel 1480". Insomma ci troveremmo di fronte ad una specie di invenzione del Frate Manzoni. Massera avrebbe potuto verificare la fondatezza della fonte Manzoni, attraverso Luigi Tonini ("Storia di Rimini", IV, 1, Albertini, Rimini 1880, pp. 351-356).
Ricapitoliamo. Quando Bonifacio IX concede i Vicariati ai Malatesti figli di Galeotto I, Cesena tocca a Carlo Pandolfo (Carlo) detto pure Conte di Sogliano. A Sogliano, il quinto Signore Malatesta VIII scompare nel 1380. La di lui vedova, Agnesina, nel 1389 sposa Bertolaccio Mainardi (cfr. A. Delvecchio, "Le donne dei Malatesti di Cusercoli e Valdoppio" ne "Le Donne di casa Malatesti" a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, p. 663), affidando la tutela del figlio Giovanni nato attorno al 1374 ["Non può esser nato più tardi del 1374", L. Tonini, "Storia di Rimini", IV, 1, p. 356] ad un cittadino di Sogliano.
Bertolaccio Mainardi è stato podestà di Rimini tra 1381 e 1382, scrive ancora L. Tonini (ib., p. 355).
Quindi con il giovane Giovanni, Sogliano è messa sotto tutela del patrizio cesenate Carlo Pandolfo Malatesti, detto da Bernardino Manzoni "Conte di Sogliano". La notizia non è inventata come suppone Massèra, ma rimanda al quadro complessivo descritto ieri da Tonini, ed oggi ben narrato da Delvecchio.
Infine, nel II vol. della "Istoria di Romagna" di Vincenzo Carrari (1539-1596), edito da U. Zaccarini nel 2009, a p. 34 si legge che sul finire del 1300 il Castello di Sogliano obbediva al Comune di Cesena. Per il contesto esclusivamente cesenate, si può leggere Scipione Chiaramonti, “Caesenae historia…”, Neri, Cesena 1641. (pp. 687-689).
Appendice D. Poggio Bracciolini
Il nome di Bartolomeo Malatesti è richiamato in un'opera di Poggio Bracciolini, "Contra hypocritas" (apparsa nel 1449), nel cui finale troviamo un'invettiva violenta diretta appunto al vescovo di Rimini, citando la sua morte recente.
Bartolomeo scompare il 5 giugno 1448, per cui gli studiosi datano il testo di Bracciolini a qualche mese dopo.
Bartolomeo è accusato di aver introdotto ridicole innovazioni nella cancelleria riminese (cfr. Ernst Walser, "Poggius Florentinus Leben und Werke", Leipzig 1914, nota 1, p. 244).
Qui si ricorda una lettera di Poggio diretta al veneziano Pietro Tommasi l'11 novembre 1447, in cui troviamo: "Nunc adversus ypocritas calamum sumpsi ad exagitandam eiusmodi hominum perversitatem". (Tommasi è figura celebre per i suoi studi medici e letterari: cfr. F. M. Colle, "Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova", III, Tipografia della Minerva, Padova 1825, p. 232.)
Scriveva Maria Luisa Gengaro (1907-1985) che l'attacco a Bartolomeo Malatesti è dovuto al fatto che il vescovo aveva limitato lo stipendio di Poggio, allora presente alla corte di Rimini (cfr. p. 155 di "Paideia", 2-3, 1947).
In numerose altre fonti bibliografiche si citano i rapporti burrascosi tra Poggio e Bartolomeo Malatesti (cfr. ad esempio i "Saggi sull'Umanesimo" di S. F. Di Zenzo, 1967, p. 29).
NOTE bibliografiche.
Il testo indicato come "Mazzatini, p. 325", è un documento pubblicato sempre in maniera erronea. Esso è contenuto nel volume di Giuseppe Mazzatinti (1855-1906), "Gli archivi della storia d'Italia, I e II", apparso presso la casa editrice Licinio Cappelli di Rocca San Casciano nel 1897-1898 (nuova edizione presso Georg Olms Verlag, Hildesheim 1988).
Si tratta di un documento proveniente da Roma, come alla p. 322 dello stesso volume si precisa, riportando un brano del prof. Giuseppe Castellani che qui riproduciamo: "Mons. Gaetano Marini, profittando della carica di Prefetto degli Archivi apostolici del Vaticano, arricchì l'Archivio Comunale di Santarcangelo di Romagna, sua patria, della copia di una serie numerosissima di documenti, la maggior parte inediti, che si riferiscono alta storia del Comune di s. Arcangelo, o de' suoi cittadini, o delle terre e castelli che facevano parte del suo Vicariato".
In esso si trova la data del 4 gennaio 1391 per il rinnovo dei vicariati da parte di Bonifacio IX ai figli di Galeotto I. Tale data è sempre apparsa come 3 gennaio.
Sulla cit. da G. Castellani, si veda il suo "Il duca Valentino. Due documenti inediti", in "Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia patria per le province di Romagna", serie III, XIV (1896), pp. 76-79. La cit. è presa da p. 76.
I testi di Anna Falcioni sono contenuti nel DBI (Volume 68, passim, 2007).
Il saggio "Parole e omissioni" di N. Gardini si legge ne “la Repubblica” del 29 agosto 2013 come anticipazione dell'intervento previsto al Festival della Mente di Sarzana per il 31 agosto successivo.
SUL WEB
Per il contesto religioso-politico in cui agiscono i Malatesti si vedano queste pagine web:
a) Alle origini di Rimini moderna. 1. Malatesti e l'Europa
b) Alle origini di Rimini moderna. 2. Il potere delle donne
c) Pandolfo I. Dal Papa in premio una nuora
d) Malatesti, Europa e Chiesa
e) 1357, intrighi politici fra Milano e Praga. Malatesti, Petrarca e Visconti
f) Londra contro i Malatesti, 1357. Pandolfo gira l'Europa per conto della Chiesa
ARCHIVIO MALATESTI
Per l'indice di tutte le pagine sui Malatesti si veda questa pagina.
Per le pagine precedenti sui Vescovi di casa Malatesti, esiste questo indice.
Antonio Montanari
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