• Sigismondo

  • La cappella del Tempio malatestiano detta delle sette Arti liberali, presenta le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali).
    Essa va "letta" con alcune precauzioni di metodo.
    Le materie sono Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio").
    Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure.
    Noi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto.

    Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia.
    Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica.
    Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica.
    L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della Cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola.
    Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa.
    Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa.

    In quest'ultima striscia (F) con la Concordia, la Città giusta, e la Scuola, si dimostra che le «arti liberali» rendono possibile la conquista della libertà come situazione in cui poter realizzare un'armonica convivenza fra gli uomini, e potersi affermare nella società secondo quanto insegnato da Leonardo Bruni con il suo «umanesimo civile».
    Le arti liberali inoltre sono ritenute uno strumento per realizzare un'età nuova attraverso lo studio delle «humanae litterae», alle quali Poggio Bracciolini attribuisce un valore formativo umano e civile, considerando i classici come maestri di virtù civili.
    Vale la lezione petrarchesca della ricerca della «sapientia» che era stata rivolta a far risorgere la «misera Italia».
    Trionfa l'assunto di Coluccio Salutati per il quale gli «studia humanitatis» sono uno strumento per formarsi quali diffusori delle «virtù civili».
    E s'intravede il motto albertiano per cui «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
    In questa "immagine" riminese si raccoglie e sviluppa quella che Eugenio Garin ha chiamato «la conquista dell'antico come senso della Storia», con gli elementi tipici del «primo Umanesimo» che fu esaltazione della vita civile non ancora dominata dalle Signorie.
    Ed il fatto che proprio un Signore come Sigismondo offra questa "immagine" di libertà nel suo Tempio, va letto semplicemente quale contrapposizione al potere ecclesiastico.

    L'immagine della Città giusta dell'ultima striscia (F) merita un approfondimento.
    La figura femminile in essa rappresentata, regge con la mano sinistra l'archipendolo, «lo strumento che simbolicamente tutto eguaglia», come scrive Vittorio Marchis in «Storie di cose semplici» (Milano, 2008, p. 46).
    Altre più antiche testimonianze collegano l'archipendolo alla figura di Nèmesi, che con esso misura «la rettitudine delle umane operazioni» (cfr. G. Minervini, «Vaso dipinto di Ruvo», in «Accademia Pontaniana», Fibreno, Napoli 1845, pp. 81-87, 85).
    Nèmesi nella mitologia greca e latina rappresenta la «giustizia distributiva» che punisce chi oltrepassa la giusta misura.
    Secondo Aristotele, la «giustizia distributiva» impone che «gli eguali siano trattati in modo eguale e gli ineguali in modo ineguale, cosicché la polis dovrà distribuire oneri e benefici in modo proporzionale» (M. Rosenfeld, «Enciclopedia delle Scienze Sociali», 2001)
    Vittorio Marchis (p. 47) spiega poi che l'archipendolo resta «simbolo di equilibrio sino a tutta l'età barocca», come testimonia il suo inserimento nell'«Iconologia» di Cesare Ripa (apparsa a Roma nel 1593).
    Da Cesare Ripa riprendiamo due spunti. A noi dalla cultura egizia deriva che, per ritrovare il giusto di una cosa, occorre raddrizzarla come fa l'Archipendolo (p. 456 dell'ed. veneziana del 1645).
    L'Archipendolo «per similitudine» insegna che, «rispetto alla rettitudine e all'uguaglianza della ragione», la virtù «non pende à gl'estremi, mà nel mezzo si ritiene» (ib., p. 191).
    Nella mano destra, infine, la Città giusta regge la «canna», simbolo delle regole morali e delle Leggi della giustizia divina.
    Sul pensiero di Aristotele in tema di giustizia, cfr. il testo di L. Guidetti e G. Matteucci, «Grammatiche del pensiero», Bologna 2012, passim.

     
    Il contesto degli antefatti.
    Per ciò che potremmo chiamare il contesto degli antefatti, inseriamo alcune notizie collegate al nostro tema.

    Di «città giusta» parla nella sua «Laudatio Florentinae urbis» (1404) il Cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, richiamandosi ad Aristotele, come osserva Eugenio Garin, nel saggio «La città ideale» (cfr. in «Scienza e vita nel Rinascimento italiano», Bari 1965, pp. 33-56).
    Bruni, contro il mito di Roma, presenta Firenze quale modello ideale di una «città giusta, bene ordinata, armoniosa, bella». Bruni spiega che la città per essere libera dev'essere giusta, con leggi razionali.
    Per quanto ci riguarda, aggiungiamo soltanto che l'Alberti "riminese" del Tempio di Sigismondo, era di famiglia fiorentina.

    Secondo elemento. Come scrive F. Alessio, con l'Umanesimo «compare ex novo quel Platone che il grande ignoto della cultura delle scholae» (cfr. «Il pensiero filosofico», in F. Brioschi e C. Di Girolamo, «Manuale di letteratura italiana», I, Torino 1993, pp. 45-80, p. 77).
    Platone aveva sostenuto che Giustizia nella Città è assolvere per essa il compito per il quale la Natura ci ha resi adatti («Repubblica», IV).
    Come si legge nel «Dizionario filosofico» di N. Abbagnano (1971), la Giustizia «produce accordo ed amicizia», secondo Platone. Il quale ci spiega che per raggiungere la Giustizia dobbiamo avere una vista penetrante, capace di distinguere le parole scritte in carattere minuscolo (che corrispondono alla Giustizia dell'individuo), da quelle che sono scritte in grande, ovvero della Giustizia e delle altre virtù scritte (Cfr. R. Radice, «Platone», Milano 2014, pp. 87-88).

    Infine, apriamo il primo volume de «I sentieri del lettore» di Ezio Raimondi (Bologna, 1994, p. 208) dove troviamo la memoria di una crisi bolognese. Ne parla Lapo di Castiglioncello, attorno al 1430.
    Inaugurando il suo corso universitario di Eloquenza, egli sostiene: si vive in tempi miseri e luttuosi, ai quali occorre reagire con l'ideale dell'uomo «saggio, forte, liberale e temperante», e con il progetto di affidare ai «boni viri» la difesa della comunità dalle «rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dalle rovine pubbliche».
    Lapo dimostra così «fede nella rinascita di un mondo morale connesso ai valori più profondi della sapienza antica», osserva Raimondi.

    Infine, va ricordato che, già dai primi decenni del Quattrocento, avviene «una generale riorganizzazione del sistema educativo e dei saperi in chiave storica e antiteologica», per cui la «storia» è «in una volta, comprensione del tempo trascorso e modello del presente» (cfr. N. Gardini, «Rinascimento», Torino 2010, pp. 15, 126).

    Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati.

    In tutte le immagini è compendiato un programma pedagogico di impronta umanistica: per formare una società rinnovata dalla concordia, si parte dallo studio della natura. In tal modo è eclissata la teologia. Ecco la rivoluzione di Sigismondo e del suo circolo di intellettuali ed artisti, che tanto dispiacque a Pio II.
    Il tema della città nuova si collega a quello della «città ideale» proposto dalla famosa opera della scuola di Piero della Francesca, dietro la quale ci sarebbe invece la mano del progettista del tempio riminese, Leon Battista Alberti, autore del "De Re Aedificatoria" (cfr. G. Morolli, "La vittoria postuma: una città niente affatto 'ideale'", ne "L’Uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze fra Ragione e Bellezza", Firenze 2006, pp. 393-399).
    La «concordia dei cittadini» d’ispirazione ciceroniana, è citata in un proverbio latino: «Concordia civium murus urbium». Di qui il collegamento allegorico tra la stessa concordia e l’arte edificatoria.
    Per la Mitologia si può rimandare a Macrobio che la chiama «narratio fabulosa»: «haec ipsa veritas per quaedam composita et ficta proferetur» ("Commentarii in somnium Scipionis", 2, 7).
    Nel Tempio Malatestiano ci sono due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo.
    Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci.
    Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102).
    Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico per la cappella delle Arti liberali.

    Secondo Anthony Grafton, è Ciriaco a comporre le epigrafi riminesi, ispirandosi a quelle napoletane da lui trascritte ("Leon Battista Alberti. Un genio universale", 2003, p. 315).
    A proposito della figura dantesca di Ulisse, è utile rileggere quanto osservato da Ezio Raimondi ("Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale", 2004, pp. 190-191): "... l'avventura di Ulisse è anche l'avventura vitale di Dante scrittore in esilio". Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
    Raimondi si riferisce alla lettera XV, libro XXI delle "Familiares", diretta a Boccaccio. In cui leggiamo questo passo: "In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni tam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est". ("E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio.")
    Il punto di Petrarca "non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas", rimanda al c. XXVI, vv. 94-97 dell'"Inferno" dantesco: "Né dolcezza di figlio, né 'l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta....".
    Ecco quindi il citato giudizio di Raimondi: Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
    Raimondi prosegue: "L'Ulisse di Dante è una controfigura negativa di Dante stesso. Presenta, sul piano dell'azione di colui che esplora l'ignoto, qualcosa che per Dante rappresenta la sua stessa operazione poetica, e che Petrarca individua subito".

    Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
    Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio.
    Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694).
    A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese, con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727. Il ritardo di tanti anni significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
    Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro di esse mette in guardia Franco Bacchelli in un saggio prezioso (2002).
    Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
    Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri".
    Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che sul finire del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
    Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani ed echi pagani.
    Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella (scomparsa) Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.

    Il dato locale di Rimini va però inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".

    La Biblioteca dei Malatesti in San Francesco, a fianco del Tempio, è la prima pubblica in Italia, e modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
    Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio.
    Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
    Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella di San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solario, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
    Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: nel testo latino non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa", legato alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse culturale verso il tema dell'Umanesimo riminese.
    Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi.

    Alle pagine sull'Umanesino riminese. Indice.


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  • A proposito dell'Umanesimo tragico di cui ha trattato a Rimini il prof. Massimo Cacciari, riferendosi alla "Resurrezione di Cristo" di Piero della Francesca, una piccola ricerca su Internet permette di ricostruire la fortuna della formula.
    Nel 1994 appare nell'annuario del Centro mondiale di Studi umanisti, che ha un vago sapore esoterico più che di analisi della cultura dell'Umanesimo in senso stretto.
    Nel 2004, a proposto del proprio libro "Della cosa ultima", il prof. Cacciari dichiara al "Mattino" di Padova: "Da tempo vado pensando che occorrerebbe, anche sulla traccia dell’autentica storiografia filosofica italiana da Gentile a Garin, rivalutare la nostra tradizione. È un umanesimo tragico, ma appunto di una tragedia che si conclude con un Ma 'vittorioso'...".
    Nel 2005, il prof. Cacciari a Caserta tratta dell'Umanesimo tragico parlando di quattro testi letterari: il canto XXVI dell’Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l’Infinito di Leopardi. Ricorda anche il vero testimone dell’Umanesimo tragico, Leon Battista Alberti, consapevole che è una stupida pretesa quella di essere "fabbro del proprio destino".
    Nel 2007 a Milano, all'Università San Raffaele, si laurea brillantemente Silvia Crupano (Roma, 1983), con una tesi dedicata al pensiero tragico di Leon Battista Alberti: "Virtus contra fatum. La dialettica dell’Umanesimo tragico. Per una Filosofia della Storia" (relatore Andrea Tagliapietra, correlatore Ernesto Galli della Loggia).
    Nel 2010 il prof. Cacciari tiene una lezione magistrale a Napoli intitolata "L'umanesimo tragico di Leopardi".
    Per tornare all'inizio del nostro discorso, sarebbe molto importante che nella nostra città ci si decidesse a ricordare l'Umanesimo riminese, in cui confluiscono tutti i temi dell'Umanesimo italiano.
    Come dice il prof. Cacciari, "occorrerebbe rivalutare la nostra tradizione".

    Un'annotazione conclusiva. Cacciari collega il concetto di "tragico" al 1453, ovvero alla caduta di Costantinopoli. Forse si potrebbe andare un pochino più indietro, sino al 1415, anno in cui culmina la tragedia dell'Europa cristiana. Durante il Grande Scisma (1378-1417), Giovanni Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga è mandato al rogo, dopo essere stato invitato con salvacondotto imperiale a Costanza, dove si trovavano i padri conciliari. Inizia allora una fase drammatica in Boemia, che dura sino al 1433. Sono fiamme che ne preannunciano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno.
    Giustamente, Franco Cardini (come si legge sul "Ponte" del 5 febbraio scorso) smorza i toni dello "scontro di civiltà", che alcuni vorrebbero far iniziare appunto nel 1453 e culminare nel 1683, anno dell'assedio di Vienna. Cardini osserva: non fu un conflitto di civiltà, ma soltanto "storico". Da questa differenza Cardini arriva alla conclusione che non si debbono "incentivare pericolosi contrasti religiosi", partendo da episodi militari o politici che hanno provocato sì rotture ma spesso pure accordi.
    Nel suo libro recente dedicato all'argomento (pp. 3-8), introducendo il tema Cardini osserva che tre-quattro secoli sono stati "dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità".
    Pure questo aspetto riguarda Rimini da vicino. Sigismondo Malatesti fa il condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. La sua condotta non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistra, Sparta nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna.
    E con Plotone, oggi, si torna da dove si era partiti, a quell'Umanesimo riminese da studiare nella sua vera portata, al di là delle suggestioni esoteriche che nel 2001 portarono a proclamare (il povero) Sigismondo "massone ad honorem".


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  • SigismondoUn orologio turco per l'Europa
    Rapporti con l'Oriente dal tempo di Sigismondo al 1700

    Nella vicenda del 1461 che ha quali protagonisti Sigismondo Pandolfo Malatesti e Maometto II (vedi «il Ponte», 1.5 e 8.5.2005), ci sono altri aspetti molto interessanti da considerare per delineare alcuni tratti della Storia italiana in generale e non soltanto del secolo XV. Franco Gaeta (1978) esaminando la «leggenda» di Sigismondo, ha sostenuto che a formarla contribuirono pure i contatti con il Gran Turco. Tutto ciò restituisce oggi a Sigismondo stesso una fama allora oscurata dall'infamia. Ed attesta pure quanta differenza passi fra la Storia e la Politica. La prima cerca di raccontare i fatti. La seconda vuole affermare le proprie presunte verità.
    Abbiamo ricordato l'opinione di Giovanni Soranzo, secondo cui «era insussistente» l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo d'aver invocato l'intervento militare di Maometto II. Gaeta riprende il discorso di Soranzo, avanzando un'ipotesi. Se Pio II tacque su quell'accusa, per Soranzo la spiegazione più logica era che il papa non ne aveva trovato le prove, e quindi non aveva «validi argomenti» per produrla in atti ufficiali. Una «colpa» in più non avrebbe recato gran danno a Sigismondo. Di fronte al tribunale della Storia, occorre tuttavia procedere con grande cautela. Quella stessa cautela che ispirò forse Pio II facendogli tacere il particolare dell'invito (presunto) a Maometto.

    Il silenzio
    del papa
    Gaeta contesta la posizione di Soranzo: le ragioni del silenzio del papa non sono «quelle di un rigoroso accertamento della verità, dato che ragioni di questo genere non sembra abbiano avuto gioco nella lotta politico-diplomatico-propagandista-militare antimalatestiana». Gaeta riassume il grande paradosso della vicenda di Sigismondo: Pio II poteva sparare le accuse contro di lui senza preoccuparsi che esse fossero fondate, anzi più erano gravi e più s'imponevano soprattutto perché provenivano dalla suprema autorità della Chiesa, sul cui operato nessuno avrebbe dovuto avanzare dubbi.
    Gaeta ipotizza «ragioni d'altro ordine» per il silenzio sul fatto del 1461. Proprio fra l'ottobre ed il dicembre di quell'anno, «Pio II stava pensando anche lui ad un accordo col Turco e andava scrivendo la famosa lettera a Maometto II», alla quale abbiano già accennato, precisando che essa era intesa («ma forse solo apparentemente», come osserva Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. In quella lettera, aggiunge Gaeta, «erano contenute ben più gravi - anche se imaginifiche - proposte che quella di passare in Italia». Gaeta ricorda come ancora nel febbraio e nel marzo 1462 Pio II stesse lavorando alla lettera a Maometto II: «Dunque una specie di remora psicologica, forse ha trattenuto Pio II dal formulare quest'ultima accusa contro il Malatesta e forse anche la volontà di non diffondere una voce di questo genere in imminenza dell'auspicata crociata».

    Protagonista
    europeo
    Il discorso di Gaeta spiega come la figura di Sigismondo continui ad inquietare gli storici che se ne sentono attratti anche dal fatto che la sua demonizzazione affascina e convince ad approfondire i temi a cui essa è legata. Sempre più, ogni volta che appare qualcosa su Sigismondo, ci si accorge che quella figura ebbe un rilievo non soltanto italiano anche sotto il profilo culturale per cui va sottolineato, come abbiamo già sostenuto, che il suo Tempio rispecchia veramente i temi dell'intero mondo mediterraneo.
    In un recente volume di Ezio Raimondi («La metamorfosi della parola») è citato un pensiero di Henri Bergson, secondo il quale «è il futuro che ci permette di capire meglio il passato». Applicando questa massima filosofica alla vicenda malatestiana del 1461, si comprende facilmente come essa possa dimostrare la centralità del personaggio di Sigismondo nel quadro internazionale a metà del Quattrocento. Gli sviluppi successivi della Storia europea hanno rivelato come spesso (molto spesso) il tempo sul quadrante della vita dei popoli del vecchio continente sia stato scandito dall'orologio turco, su cui gli altri Stati hanno dovuto regolare i propri calendari politici. Basti ad accennare a due eventi. Il 7 ottobre 1571 la «lega santa» con una flotta comandata da don Giovanni d'Austria sconfigge a Lepanto i turchi. Che nel 1683 giungono sotto le mura di Vienna. La loro sconfitta il 12 settembre è celebrata in tutta l'Europa cristiana.

    Cultura
    per l'unità
    Tra queste due date si svolge un'intensa attività culturale, studiata di recente da Andrea Battistini nel volume «Il Barocco. Cultura miti immagini». Smorzatasi l'euforia di Lepanto, «l'Europa, sentendosi di nuovo minacciata dal pericolo turco, lancia da più parti appelli alla fratellanza» (pp. 74-75). Il farmaco capace di «medicare i traumi che hanno diviso il mondo cristiano» è l'enciclopedismo. A Rimini un esponente di questo indirizzo seicentesco è il sacerdote Giuseppe Malatesta Garuffi, 1655-1727, agguerrito difensore della grandezza di Sigismondo (v. «il Ponte» 5.10.2003). Ritorneremo altra volta su Garuffi, formatosi a Roma alla scuola gesuitica, in cui (secondo Battistini) l'enciclopedismo è un modo per raccordare Tomismo e nuova Scienza. Battistini sottolinea che «siffatti disegni di sintesi del sapere non sono una prerogativa secentesca», avendone espressi già l'Umanesimo oltre alla cultura classica con Quintiliano. Leggendo ciò, non si può non ricordare Sigismondo con il suo Tempio quale «summa» che, come già ci siamo espressi, racconta la continuità storica del mondo mediterraneo, e che è sintesi unificatrice rivolta a privilegiare l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune.

    Feste
    a Bologna
    A Bologna quando il 18 settembre 1683 giunge la notizia della liberazione di Vienna, il Legato fa distribuire abbondanti quantità di vino e di pane. Una cronaca registra «un rumore per la Città» che faceva pensare ad «una vera sollevazione». Dopo il solenne «Te Deum» celebrato in San Petronio, si festeggia per tutta la notte in piazza Maggiore, mentre i poeti danno sfogo alla loro ispirazione anche con poemetti in dialetto, come Lotto Lotti che dedica al conte Alessandro Sanvitali il poemetto giocoso «in lingua popolare» intitolato «Ch' n' hà cervel hapa gamb». Il 24 agosto 1684, durante la «festa della porchetta», il Senato fa rappresentare uno spettacolo sull'assedio di Vienna, tema che tornerà al teatro Malvezzi addirittura nel 1736 con un dramma replicato per tutto il periodo di carnevale.
    A Rimini nel settembre 1683 gli atti pubblici non segnalano nulla circa gli echi dei fatti viennesi, stando a quanto scrive Carlo Tonini: «ci reca meraviglia, che tra i documenti da noi veduti non ne rimanga memoria e che il 1683 sia tra quegli anni, che meno di tutt'altri somministrano materia alla storia nostra». E dire che, aggiunge, la nostra riviera era stata «tanto minacciata» in passato dalle scorrerie dei turchi. Va precisato che non tutti gli atti dell'archivio comunale, tranne il registro del pubblico Consiglio (ora in Archivio di Stato) di cui parla Carlo Tonini, sono sopravvissuti sino a noi.

    Davìa, un Nunzio
    a Rimini
    Nel 1684 come ingegnere alla spedizione militare della Lega santa nella guerra di Morea (Peloponneso), troviamo il futuro vescovo di Rimini, il bolognese Giovanni Antonio Davìa, poi presente all'assedio della fortezza di Santa Maura a Corfù, conclusasi con la capitolazione turca. Tornato in Italia, Davìa è mandato Internunzio a Bruxelles (1687). Nel 1690 è consacrato vescovo, e destinato alla nunziatura di Colonia, da dove è trasferito a quella di Polonia (1696). Il 18 marzo 1698 è nominato vescovo di Rimini. Due anni dopo, il 26 aprile 1700, è promosso alla prestigiosa nunziatura di Vienna, nei momenti difficili della guerra di successione spagnola (1702-1713). A Rimini si ritira il 25 maggio 1706.
    All'insegna di politica e vita militare si svolge negli stessi anni l'esperienza di un altro «viaggiatore» bolognese, Luigi Ferdinando Marsili che tra 1679 e 1680 va a Costantinopoli con l'ambasciatore della Serenissima Pietro Civran, ricavando dal viaggio il materiale per le «Osservazioni intorno al Bosforo tracio, overo Canale di Constantinopoli» che pubblica a Roma nel 1681 con dedica alla regina Cristina di Svezia. Si arruola l'anno dopo nell'esercito austriaco. Cade prigioniero, mentre i turchi sono sconfitti a Vienna. Liberato dietro pagamento d'un riscatto nella primavera del 1684, va militare in Ungheria, in Transilvania, in Ungheria, diventa colonnello, partecipa alle trattative con i turchi come osservatore non ufficiale (1691-1692). Lo sospendono dal comando del suo reggimento, in base ad accuse delle alte gerarchie. Presenzia i negoziati per la pace di Karlowitz del 1698 tra Austria, impero ottomano, Polonia e Venezia. Lo nominano «generale di battaglia».

    Il pericolo
    è a Mosca
    Tra 1698 e 1701 Marsili lavora lungo la linea del Danubio per concordare con i rappresentanti turchi una linea di confine. Per il collega orientale divenuto ormai suo amico, Ibrahim Effendi, Marsili fa costruire uno speciale orologio a sveglia capace di scandire le fasi del Ramadan. Il progetto di Marsili è quello di avvicinare i due imperi lungo il Danubio. Il fiume avrebbe trasferito in Oriente le nuove tecnologie europee, e veicolato in Occidente le ricchezze ottomane. Marsili denuncia a Vienna il pericolo costituito dal monarca moscovita, pronto a lanciare i cosacchi contro l'Ungheria. E suggerisce di fomentare una guerra fra russi e polacchi onde distogliere l'attenzione dei primi verso il Mediterraneo ottomano. Per favorire i turchi, secondo il progetto di Marsili, gli Stati cristiani avrebbero dovuto lottare fra loro. Ma proprio il re di Polonia aveva salvato l'Occidente sotto le mura di Vienna, quando Marsili era prigioniero dei turchi. Ora gli fa più paura il regno ortodosso che la fede in Maometto.
    Come ha osservato Fabio Martelli, da cui abbiamo ripreso queste notizie, il bolognese antepone la logica della Ragion di Stato ad un primato della Tolleranza. Marsili scrive le sue relazioni più scottanti al governo di Vienna nel tempo in cui il Nunzio apostolico nella capitale austriaca è Davìa. Nel 1714 Marsili fonda l'Istituto delle Scienze di Bologna ispirandosi ai modelli della londinese Royal Society (1662) e dell'Académie Royale des Sciences di Parigi (1666). All'Istituto Davìa nel 1725 dona vari strumenti scientifici tra cui un orologio. Diverso ovviamente da quello fatto costruire da Marsili per Ibrahim Effendi.


    Scheda

    Letterati al soldo
    «Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati. [...] Ma è l'Italia de' letterati, con il suo centro di gravità nelle corti. [...] I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio; il nemico del'oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto». Francesco De Sanctis, «Storia della letteratura italiana» (1870-71)

    Pio II e Maometto II
    Pio II (eletto nel 1458) compone nel 1461 in latino una «Epistola a Maometto», intesa («ma forse solo apparentemente», è stato osservato da Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. Papa Piccolomini è noto in campo storico-letterario per i suoi «Commentari» editi con mutilazioni a Roma nel 1584. Ha scritto Eugenio Garin che in essi «l'attenzione dell'uomo nuovo si rivolge a sé e al mondo con una concretezza veramente moderna». Pio II muore nella notte sul 15 agosto 1464. «Ha coltivato [...] il sogno anacronistico di una crociata: non di una guerra europea contro i turchi, ma proprio una crociata», pensando di coinvolgere il re d'Ungheria Mattìa  Corvino (Mátiás Hunyadi, 1440-1490), che ebbe vari contatti con l'Italia e che prese in moglie Beatrice di Napoli, figlia del re Ferdinando I d'Aragona (Giampaolo Dossena).

    Piccolomini e l'antipapa
    Quando Niccolò V emana il decreto conciliare (1439) per l'unione delle due Chiese, a Basilea si elegge un antipapa, Felice V, il principe Amedeo VIII di Savoia, scomunicato immediatamente dal concilio di Firenze. Fra i suoi elettori c'è Enea Silvio Piccolomini che divenne il suo segretario particolare, prima di lasciarlo per passare al servizio di Federico d'Asburgo, e di riconciliarsi con il pontefice romano, Eugenio IV. Prese gli ordini sacri e divenne nel 1447 vescovo di Trieste. «Nove anni dopo era cardinale, due anni dopo papa», il Pio II nemico di Sigismondo. (F. Rondolino)

    «Cospirò» dice il romanziere
    Il Malatesti voleva nel 1461 «aprire al Turco le porte dell'Europa», ha scritto il romanziere Alberto Cousté in «Sigismondo» (1990): «per lui, ansioso d'assoluto, ogni eccesso era un tentativo di sintetizzare l'universo» (pp. 360-1).
    (3 - fine)

    Antonio Montanari

    I due precedenti articoli della serie si leggono qui:

    1. Sigismondo il terrorista

    2. 1461 Venezia contro Rimini


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  • Sigismondo1461, le spie della Serenissima contro Rimini
    Come fallì la missione di Matteo de' Pasti a Maometto

    Nella precedente puntata abbiamo visto che Maometto II, tramite l'ambasciatore veneto in Egitto Girolamo Michiel, nel 1461 chiede a Sigismondo Pandolfo Malatesti il favore d'inviargli un artista che lavorava allora a Rimini, Matteo de' Pasti, per farsi ritrarre.
    Michiel aveva ricevuto l'incarico di recarsi in Egitto il 7 luglio 1460. L'incontro con Maometto avvenne forse nello stesso anno «perché si sa che il Gran Turco stette lontano da Costantinopoli parecchi mesi nel 1461 per la guerra contro le popolazioni ribelli dell'Asia Minore e delle regioni finitime al Mar Nero, e nella sua capitale fece solenne ritorno solo il 6 ottobre». Così scriveva nel 1909 Giovanni Soranzo, aggiungendo: «Solo dopo questo avvenimento poté allontanarsi Matteo de' Pasti da Rimini alla volta di Costantinopoli».

    Matteo amico
    degno di fiducia
    Il veronese Matteo de' Pasti abitava da quasi vent'anni a Rimini, lavorando come «valente direttore dei lavori» nel nostro Tempio. «Più volte aveva avuto l'invito di potenti e illustri principi italiani di recarsi alla loro corte, dove gli si promettevano onori e ricchezze», spiega Soranzo, «ma per compiacere Sigismondo suo mecenate e signore, aveva rifiutato». Un concittadino di Matteo de' Pasti, il canonico lateranense Matteo Bosso che fu a Rimini nel 1457, scrisse che lo stesso de' Pasti occupava un posto distinto nella corte malatestiana. Nella lettera credenziale che Sigismondo fa comporre in latino da Valturio per Maometto, Matteo de' Pasti è definito suo assiduo compagno ed amico, artista mirabile, diligente in ogni lavoro, degno di somma fiducia, dotato di una modestia singolare e di una non comune erudizione.
    Probabilmente la partenza da Rimini di Matteo de' Pasti avviene verso la fine dell'ottobre 1461. Egli porta con sé per Maometto II non soltanto la lettera latina di Valturio e una copia del «De re militari» dello stesso Valturio, ma pure un'opera propria, come scoprì Augusto Campana nel 1928, citando un cronista contemporaneo di Sigismondo, il forlivese Giovanni di Pedrino. Si trattava di una carta di tutta l'Italia «de sua mano disegnada». Il cronista annotò che essa serviva «per informare el Turco del paexe d'Italia per monte e per piani e per terra e per aqua». Lo scopo nascosto sia del viaggio sia del dono della carta veniva identificato dal cronista forlivese nella volontà del signore di Rimini di chiamare Maometto in suo soccorso contro il papa, il quale stava facendo grande guerra a Sigismondo considerandolo uno scomunicato.

    La cattura
    e il processo
    Matteo de' Pasti nel novembre 1461 è catturato in Candia e invece d'essere condotto a Costantinopoli è trasferito a Venezia: «esaminato e forse sottoposto alla tortura dal Consiglio dei Dieci, fu giudicato innocente e liberato il 2 Dicembre», spiega Soranzo in una sua celebre opera del 1911 («Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti 1457-1463», p. 272). Al Consiglio dei Dieci (che creando un regime di terrore salvaguardò l'istituzione oligarchica), facevano capo anche le spie della Serenissima, sparpagliate dappertutto. La scarcerazione di Matteo de' Pasti significava la sua innocenza, secondo Soranzo (1909): avrebbe subìto un diverso trattamento, oltretutto quale suddito della Repubblica, se ci fosse stata in qualche modo la certezza che egli «era complice di un'impresa che non solo metteva a repentaglio  i più sacri interessi della Cristianità, ma minacciava gravemente la potenza, l'incolumità dei dominii coloniali e la prosperità dei traffici della Regina dell'Adriatico». L'innocenza di Matteo de' Pasti è di conseguenza un'assoluzione per Sigismondo, ritenuto il mandante della missione politica presso il Turco. Soranzo aggiunge che il papa non fa mai parola della presunta colpa del Malatesti né nelle bolle di scomunica né nei propri scritti. Inoltre ne tacciono i pubblici documenti di Milano, Venezia, Firenze e Mantova. Ed infine i contemporanei quando parlavano dei misfatti di Sigismondo non accennavano a «qualsiasi tentativo di accordo» con Maometto II.

    Interviene
    lo Sforza
    Nel 1910 Soranzo pubblicò una lettera che il 10 novembre 1461 Antonio Guidobono scrisse da Venezia al duca di Milano Francesco Sforza, di cui era agente nella città lagunare, informandolo della missione di Matteo de' Pasti inviato a Costantinopoli dal «Signor Sigismondo» per esortare il Turco a venite in Italia. Guidobono suggeriva allo Sforza d'informare il papa del contenuto della missiva. (Sigismondo nel 1441 aveva sposato Polissena Sforza, figlia di Francesco, morta nel 1449). Sforza diffonde la notizia a Napoli, Roma e Parigi. Prima scrive ad Antonio da Trezzo suo ambasciatore presso Ferdinando I d'Aragona re di Napoli. In questa lettera lo Sforza dice che la richiesta al Turco corrispondeva agli «usati costumi» di Sigismondo, ovvero «cercare cose nuove».
    Il 24 novembre lo Sforza informa Ottone del Carretto, suo ambasciatore presso la corte pontificia inviandogli anche copia della lettera di Guidobono con l'ordine di leggerla al papa senza citare chi ne fosse l'autore e da dove fosse giunta. Il 26 lo Sforza si rivolge anche ai tre rappresentanti che ha presso la corte di Parigi, Tommaso da Rieti, Lorenzo Terenzi da Pesaro e Pietro Pusterla. L'accusa contro Sigismondo è al centro di altri documenti. Ottone del Carretto da Roma risponde allo Sforza il 5 dicembre. Lo stesso giorno il messo dei Gonzaga a Roma, Bartolomeo Bonatto ne scrive a Lodovico marchese di Mantova, precisando che Mattia de' Pasti recava con sé «el colfo disignato», cioè quella carta di cui parla il cronista forlivese Giovanni di Pedrino.

    Penosa
    impressione
    Come commenta Soranzo (1909), la notizia della cattura del messo di Sigismondo si diffuse in tal mondo «per tutta Italia». «L'impressione fu dovunque penosissima: persino a Venezia, dove il Malatesti aveva i migliori amici e godeva grandi simpatie; a Roma poi esultarono i suoi nemici, i quali accoglievano con facile soddisfazione questa novella e stimolavano il papa a volerla finire con quell'infame nemico del nome cristiano». Bartolomeo Monatto e Ottone del Carretto raccontano nei loro dispacci le reazioni romane e veneziane. Ottone osserva prima che il papa era già stato informato «per altra via et in questa corte è divulgata questa cosa et ogniuno ne dice male». In altro testo del 2 gennaio 1462 aggiunge che il papa è più che mai deciso a colpire Sigismondo con la «sententia» (ovvero scomunica maggiore, interdetto e privazione del vicariato), ritenendo raggiunta la prova con l'arresto di Matteo de' Pasti che lo stesso signore riminese aveva cercato di contattare il Turco, «ad invitarlo et confortarlo a venire in Italia».
    Il papa ottiene da Venezia di potere esaminare il libro sequestrato a Matteo de' Pasti. Tardando la sua restituzione, il governo della Serenissima il 13 aprile 1463 solleciterà il pontefice a  consegnarglielo. Il papa il 5 giugno 1462 rimprovera a Borso d'Este duca di Modena vari torti, tra cui i favori fatti al nostro Sigismondo il quale «Turcorum impiam gentem studuit advocare». Commenta Soranzo (1909): Pio II aveva un desiderio di vendetta contro Sigismondo e per questo «da più mesi manteneva una guerra forte e resistente» contro di lui.
    Ad accusare Sigismondo c'era una testimonianza del 4 settembre 1461, cioè precedente la partenza di Matteo de' Pasti: Galeotto Agnense luogotenente di Pesaro scriveva a Francesco Sforza che Sigismondo «ha incominciato a dire che poi chel re fa venire Scandarbeco cheesso mandarà per lo Turco». Ovvero se l'Aragonese aveva invitato in Italia il prode albanese Giorgio Scanderbech ad aiutarlo, Sigismondo avrebbe chiamato Maometto. Quella del Malatesti era una minaccia o una spavalderia? Conclude Soranzo che era insussistente l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo, mancando validi argomenti per sostenerla.

    La leggenda
    del 1462
    Contro il signore di Rimini nacque una seconda, infondata leggenda: d'aver tentato di ripetere nel 1462 la missione presso Maometto II. Alla fine di quell'aprile, racconta Soranzo, si spargeva la voce del nuovo viaggio d'un suo messo, ser Rigo, ovvero Enrico Aquadelli (siniscalco e maggiordomo della corte riminese). Nasce da Pesaro la soffiata per mano di Niccolò Porcinari da Padule, governatore provvisorio della città, che il 29 aprile ne riferisce in termini non certi al duca di Milano.
    Ser Rigo, spiega Porcinari, il giorno 28 si rifiutò di partire perché la luna era in combustione. Il giorno prima Roma aveva pubblicato la notizia della «terribile scomunica» contro Sigismondo. Ser Rigo partì successivamente? Impossibile, spiega Soranzo (1910), perché il 27 aprile 1462 Sigismondo accredita Ser Rigo presso il duca di Milano. Che lo ricevette il 16 maggio, ricevendone in omaggio una copia del «De re militari», lo stesso titolo che Sigismondo aveva prescelto per Maometto II come biglietto da visita. Lo Sforza veniva consultato da Sigismondo per ricevere suggerimenti come comportarsi con il papa. La risposta del duca di Milano fu: umiliarsi e chieder perdono.
    Ma ormai era tardi. Il 26 aprile 1462 tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono bruciati in tre punti diversi di Roma, ed il giorno seguente il papa emana la bolla Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini, inaugurando quella «leyenda negra» su di lui, che ritorna successivamente. (Leandro Alberti nella Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa, 1550, definisce Sigismondo «valoroso capitano de i soldati», ricalcando quanto scritto da Pio II «che narra i suoi vitij, et opere mal fatte». Lo stesso fa negli Annali Francescani del 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), chiamando Sigismondo uomo da ricordare più per le doti del fisico che per quelle dello spirito, per aver condotto una vita che nulla aveva avuto di cristiano.)
    Con la scomunica il papa vuole fermare Sigismondo che, come ha scritto Anna Falcioni, era «sostenuto dalla diplomazia francese e dall'arrivo di nuovo denaro», e stava preparando con il principe di Taranto un piano per impossessarsi di Pesaro ed attaccare Urbino. Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana lascerà allo «splendido» Sigismondo (così lo chiama Maria Bellonci) una città privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune. Al triste declino, Sigismondo tenta d'opporsi come condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. Chiede una raccomandazione presso il papa. Venezia lo accontenta, anche per giustificare con Pio II la propria scelta: non si trovava chi volesse accettare il mandato. La condotta di Sigismondo non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistrà, l'antica Sparta capitale della Morea, nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna. Se Pio II non fosse già morto il 15 agosto 1464, Sigismondo avrebbe fornito al papa forti motivi per un'altra condanna.
    Antonio Montanari

    Al precedente articolo sul tema:

    Sigismondo il «terrorista»
    Fu accusato nel 1461 di spingere Maometto II contro Roma.

    Archivio Malatesti.



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    Sigismondo il «terrorista»
    Fu accusato nel 1461 di spingere Maometto II contro Roma

    Nei fatti della Storia come nei romanzi gialli o nelle indagini poliziesche, i dettagli vanno raccolti e raccontati con attenzione. Essi aiutano a comprendere un personaggio, a ricostruire una vicenda collettiva, a tessere o decifrare una trama che altrimenti resterebbe lontana e confusa come un paesaggio remoto. Il quale, se affascina nella sua sommaria sintesi, non offre però la possibilità di descrivere i tratti caratteristici del suo territorio.
    Partiamo da un notizia di cronaca, prima di entrare nel merito dell'argomento. Londra ha di recente ospitato alla Royal Academy of Arts una mostra intitolata «Turchi, un viaggio lungo mille anni». Tra i pezzi in mostra c'era il ritratto di Mehemed (Maometto) II attribuito a Shiblizade Ahmed ed eseguito nel 1480. Maometto II era nato ad Adrianopoli (Edirne) nel 1430, e morì nel 1481. Il 29 maggio 1453, conquistò Costantinopoli ponendo fine al millenario impero bizantino.
    L'antica Bisanzio aveva cambiato nome nel 330 quando Costantino vi pose la sede imperiale (prima è detta Roma Nuova poi Costantinopoli). Nel 293 il riordinamento dell'impero voluto da Diocleziano aveva creato la doppia capitale, per un più capillare controllo dei territori: Nicomedia (Izmit) per lo stesso Diocleziano che guidava la parte orientale, e Milano per Valerio Massimo che governava quella occidentale. A Milano è emanato nel 313 l'Editto di tolleranza.
    La riforma di Diocleziano prevede oltre ai due Augusti altrettanti loro vice destinati a succedergli: sono i Cesari, Galerio per l'Oriente (residente a Sirmio nell'Illiria) e Costanzo Cloro in Occidente (residente a Treviri nella Gallia e ad Eboracum in Britannia). Roma diventa così un nome vuoto.

    Tra Occidente
    ed Oriente
    Nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d'Occidente, si apre una nuova fase storica. L'eredità latina sopravvive ad Oriente con i bizantini. In Italia, Gallia, Spagna ed Africa nascono i regni romano-barbarici. Inizia formalmente quel «medio evo» che si fa concludere con la scoperta dell'America (1492) o con la conquista nel 1453 di Costantinopoli (che diviene Istanbul), quando all'impero bizantino subentra l'ottomano che crolla al termine della prima guerra mondiale (1914-1918) assieme a quelli austriaco, tedesco e russo.
    Nel 553 i bizantini stabiliscono il loro dominio sulla nostra penisola, con l'esarca (governatore militare e civile) che risiede a Ravenna, nella regione detta Ròmania (da cui Romagna). Rimini fa parte della Pentapoli marittima con Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona. Queste città nell'ottavo secolo passano allo Stato della Chiesa, nato per l'intervento dei Franchi in Italia (chiesto nel 754 da papa Stefano II).
    Nel 1453 Costantinopoli è una città spopolata e in decadenza. Con Maometto II ridiviene un centro fiorente, abitato da una popolazione multirazziale e plurireligiosa. Per numero di residenti e per importanza commerciale essa supera qualsiasi altra città del mondo musulmano e cristiano. Maometto nel 1456 è sconfitto a Belgrado, e tre anni dopo conquista il Peloponneso, Trebisonda (ultimo stato bizantino ancora autonomo), parte dell'Albania, le colonie genovesi di Crimea e la Serbia. La sua ultima impresa militare nel 1479 è la campagna d'Ungheria che si conclude con una sconfitta.
    La caduta di Costantinopoli del 1453 provoca forte tensione internazionale. Papa Niccolò V emana una bolla in cui si parla dell'avvento della bestia dell'«Apocalisse» avanguardia dell'Anticristo. Le altre potenze politiche invece pensano soltanto agli affari. Le loro reazioni, è stato osservato da Corrado Vivanti, furono soltanto «sentimentali o retoriche». Non va dimenticato che i cannoni usati per espugnare Costantinopoli erano stati costruiti da un ingegnere ungherese.

    A Rimini nasce
    il Tempio
    Il 1453 è anche l'anno in cui prende forma il Tempio riminese con l'innalzamento delle pareti esterne secondo il disegno di Leon Battista Alberti. Due anni prima Piero della Francesca ha firmato e datato l'affresco nella cella delle Reliquie, ed il primo maggio 1452 è stata consacrata la cappella di san Sigismondo re di Borgogna, la cui statua è opera di Agostino di Duccio.
    In quell'affresco (interpretazione laica di un soggetto di devozione, secondo Roberto Longhi), Sigismondo Pandolfo Malatesti fa celebrare il proprio protettore con le fattezze dell'omonimo imperatore (1368-1437) il quale nel 1433 era stato incoronato a Roma ed aveva visitato Rimini, concedendo il 3 settembre la sua investitura allo stesso Sigismondo ed al fratello Malatesta Novello.
    La conquista di Costantinopoli, provoca sgomento nel mondo cristiano, mentre l'Islam esulta dall'Andalusia all'India. Il vescovo di Siena Enea Silvio Piccolomini (futuro Pio II, e grande avversario del nostro Sigismondo) scrive a Niccolò V: «Pudet iam vitae, feliciter ante hunc casum obiissemus!», mi vergogno di vivere, almeno fossi morto. Niccolò V si converte allo spirito di crociata contro i turchi. La spada dei turchi pende ormai sulle nostre teste, e noi ci facciamo la guerra l'un l'altro, scrive lo stesso Piccolomini al cardinale e filosofo Niccolò Cusano.
    Il 18 aprile 1454 Venezia stipula un accordo con Maometto II. Pochi giorni prima, il 9 aprile, è stata firmata la pace di Lodi fra gli Stati italiani, favorita da una generale spossatezza e dalla conclusione della guerra dei Cento anni (1453) che rendeva disponibile la Francia ad un intervento in Italia. Tra Stati europei ed impero ottomano, secondo Luciano Canfora, dal 1453 «almeno fino al tempo del Bonaparte» s'instaura un rapporto caratterizzato dal «massimo di retorica demonizzante» in Occidente, e sull'altro versante dal «massimo di spregiudicatezza diplomatica».
    Su questo scenario internazionale va collocato il «dettaglio» che riguarda Sigismondo. Siamo nel 1461. Maometto, tramite l'ambasciatore veneto in Egitto, il nobile Girolamo Michiel, chiede al signore di Rimini il favore d'inviargli Matteo de' Pasti per farsi ritrarre. Matteo si trovava nella nostra città dal 1446, «gelosamente» custodito da Sigismondo (come scrisse nel 1909 Giovanni Soranzo), per lavorare all'interno del Tempio. Matteo de' Pasti è soprattutto noto grazie alle medaglie che ritraggono lo stesso Sigismondo ed Isotta.
    Sigismondo di buon grado accetta la richiesta di Maometto II, a cui invia tramite lo stesso Matteo una lettera in latino composta da Roberto Valturio, il suo «più dotto e benemerito segretario», accompagnandola con il dono d'una copia del «De re militari» opera dello stesso Valturio, famosa ancor oggi per l'elogio del Malatesti: «... tu, o Sigismondo, che nella difesa della religione e nel certame della gloria non sei inferiore ai più illustri condottieri ed imperatori, dopo la conclusione della guerra italica, nella quale hai sconfitto ed annientato tutti i nemici grazie all'invincibile ardimento del tuo animo, volgendo il pensiero dalle armi ai pubblici affari, con i bottini delle città assediate e sottomesse, confidando nella somma religione del santissimo e divino Principe, hai lasciato, oltre ai sacri edifici posti a tre miglia dalla città sul monte e dinanzi al mare, quel Tempio famoso e degno d'ogni ammirazione, ed anche unico monumento del tuo nome regale, entro le mura, al centro della città e nei pressi del foro, costruito dalle fondamenta e dedicato a Dio, con tanta abbondanza di ricchezza, tanti meravigliosi ornamenti di pittura e di bassorilievi, di modo che in questa famosissima città, quantunque si trovino moltissime cose degne d'essere conosciute e ricordate, niente vi sia di più importante, e niente che di più sia stimato da vedere, soprattutto per la grande vastità dell'edificio, per le numerose ed altissime arcate, costruite con marmo straniero, ornate di pannelli di pietra, e nelle quali si ammirano bellissime sculture ed insieme le raffigurazioni dei venerabili antenati, delle quattro virtù cardinali, dei segni zodiacali, dei pianeti, delle Sibille, delle arti e di altre moltissime nobili cose».
    La missione di Matteo de' Pasti non va in porto. Nel novembre 1461 è catturato in Candia e condotto a Venezia dove lo processano riconoscendolo innocente (e pertanto lo rilasciano il 2 dicembre). Da Venezia si diffonde (tramite la corte milanese) la falsa notizia che Sigismondo aveva cercato di contattare Maometto per esortarlo a venire a combattere in Italia. Il nuovo papa Pio II che stava allora esaminando la «posizione» di Sigismondo (sarà scomunicato il 27 aprile 1462), è dello stesso parere.
    Secondo Soranzo, l'accusa rivolta al nostro principe era «insussistente». Tuttavia essa circolò da Milano sino a Napoli al solo scopo di denigrare Sigismondo come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta. Insomma, lo presentavano (oggi diremmo) quale «terrorista» al soldo del Turco. Questa in breve è la vicenda della missione fallita di Matteo de' Pasti, i cui particolari racconteremo in un secondo articolo.

    Notizie sui
    suoi studi
    Per ora ci limitiamo ad osservare che Sigismondo scrivendo a Maometto II (per mano di Valturio), dichiara di voler far partecipe il sultano dei propri studi ed interessi («te meorum studiorum mearumque voluptatum partecipem facere»). Non ha progetti politici nascosti. Desidera semplicemente ribadire un suo sogno o ideale: una cultura aperta all'ascolto di tutte le voci, nel solco della tradizione umanistica, testimoniata dallo stesso Tempio.
    Il monumento riminese rispecchia i temi dell'intero mondo mediterraneo dove greci, romani ed arabi avevano costruito un sapere universale. Gli arabi avevano poi permesso ai dotti europei di recuperare ciò che alla fine dell'era classica era andato smarrito in campo filosofico e scientifico. Bisanzio è l'altra metà di quel mondo, come ha dimostrato Niccolò V che, dopo il decreto conciliare del 1439 per l'unione delle due Chiese, ha tentato di rinnovare la tradizione classica greca.
    Il Tempio racconta il senso della continuità storica del mondo mediterraneo, fatta di sintesi unificatrice che privilegia l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune, mentre l'analisi strettamente geo-politica delle singole entità territoriali tende a dividere ed a contrapporre. E la vicenda del 1461 ne è piena conferma. Forse Sigismondo sognava di trasformare Rimini in una città-ponte con tutti i centri intellettuali del Mediterraneo, un specie di faro di sapienza che potesse vantarsi di succedere a Roma, Bisanzio e Ravenna.

    Antonio Montanari

    Alla seconda parte dell'articolo, 1461, le spie di Venezia contro Rimini

    Archivio Malatesti


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