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Il grande macello di cardinali
Se non scandalizza tuttora la vicenda di Girolamo da Praga, ancora più orribile in punta di Diritto di quella del suo maestro Huss, certo si può omettere di ricordare come essa nasca da uno spirito di intolleranza che pone le sue salde radici proprio nell'operato di Urbano VI.
Il quale nel luglio 1385, si legge in Gregorovius, fa uccidere a fil di spada il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio, poi abbandonato come un cane lungo la via.
Lo aveva fatto torturare per sapere qualcosa circa una congiura che gli era stata descritta come progettata contro di lui, dal cardinale Tommaso Orsini di Manoppello. Le ferite subìte e l'età rallentano Sidonio nel viaggio a cavallo da Nocera verso Salerno, che il Papa ha intrapreso portandoselo dietro, per rifugiarsi a Genova. Urbano VI sospetta che il suo procedere lento sia una simulazione per un tranello.
Ed Urbano VI non ascolta la voce della coscienza neppure dopo l'omicidio, lasciando Sidonio senza una sepoltura.
Altre vittime indirette della politica di scontro del Papa con il re di Napoli, sono quelle provocate da quest'ultimo, ai danni di quei sacerdoti che, obbedendo al Pontefice, dovettero credere nell'interdetto di quest'ultimo ai danni del sovrano.
Nel giugno 1383 Urbano VI aveva lasciato Roma per muovere contro il nuovo re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo.
Il cardinale Bartolomeo Mezzavacca, Vescovo di Rieti, giunto a corte invitato dal re ormai da un anno (assieme ad altri due religiosi…), cerca di impedirgli l'ingresso nel Regno di Napoli. Per questo il 15 ottobre successivo è privato dal Papa del titolo cardinalizio, e sottoposto a processo. Il 7 gennaio 1384 Mezzavacca è trasferito a Napoli con una galera, con altri tre cardinali, Donati, Cogorno e Altavilla. I primi due finiscono uccisi a Genova
Urbano VI il 24 maggio 1384 è a Nocera presso il nipote «Butillo». A Nocera in estate arriva anche Mezzavacca che poi torna a Napoli con alcuni cardinali. Il 21 gennaio 1385 Mezzavacca confessa sotto tortura le colpe sue e di altri avversari del Papa.
Nella primavera seguente Mezzavacca prepara un documento contro Urbano VI, firmato anche da Pileo da Prata (arcivescovo di Ravenna), Landolfo Maramaldo (che non si muoverà da Napoli), Luca Gentili e Pancello Orsini.
A Genova nella notte del 15 dicembre 1386 sono cinque le sentenze di morte eseguite per gli accusati di quella congiura. Sono gli Arcivescovi di Taranto (Marino del Giudice) e di Corfù (Giovanni d'Amelia), ed i cardinali di Genova (Bartolommeo di Cogorno), San Marco (Ludovico Donati) e Santo Adriano (Gentile di Sangro), «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», osserva Ludovico Antonio Muratori.
Soltanto il loro collega inglese Adam Easton si è salvato, grazie all'intervento del proprio re Riccardo II che ne aveva chiesto la liberazione.
Molti anni dopo, morto Urbano VI, un testimone racconta che essi «in carcere iugulati, et in stabulo equorum clam noctu sepulti fuerint», come riferisce Gobelino Persona (1358-post 1418, autore del «Cosmodromium» edito nel 1559 a Francoforte), a cui era stata fatta la confidenza.
Dietrich von Niem, scrittore della cancelleria pontificia, «presente non poté reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi secondo lui confessò. Furono rimessi nelle carceri coll'ossa slogate, a patir fame e sete e gli altri malori della prigionia». Così leggiamo in Muratori.
Tanta ferocia del potere papale nasce pure dal fatto che i cinque cardinali uccisi hanno tentato una fuga da Genova, come racconta Gregorovius.
Quella ferocia rispecchia il clima in cui viveva la Chiesa. La fine della cattività avignonese avviene nel 1377 con il predecessore di Urbano VI, Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort, eletto il 30 dicembre 1370, incoronato il 5 gennaio 1371). Trasferitosi a Roma il 17 gennaio 1377, muore il 28 marzo 1378.
Appena giunto in Italia Gregorio XI promuove una feroce repressione delle rivolte nei territori della Chiesa. Domata Bologna, dai Bretoni è terribilmente saccheggiata Cesena, dove «circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore», come si trova negli «Annali» muratoriani. Il massacro di Cesena è opera del Cardinal Legato Roberto di Ginevra, capo di quei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere la ribellione popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati. E Roberto di Ginevra il 20 settembre 1378 diventa l'antipapa avignonese Clemente VII.
La fine della cattività avignonese è però soltanto un fatto formale che non modifica una struttura ampiamente segnata da quella che Franco Gaeta definisce «la degenerazione burocratico-legalista» che allora si manifesta come avidità, fiscalità e «la pressoché diabolica mondanizzazione dell'istituto ecclesiastico».
La contestazione in nome della verità evangelica è affrontata a Costanza non con un collettivo «mea culpa» ma con quei roghi che restano simboli di un indirizzo non soltanto religioso ma pure culturale.
Negli anni successivi al Concilio di Costanza (1414-1418), la «coscienza di una decadenza politica e religiosa inarrestabile», come scriveva Cesare Vasoli, nutre la ribellione culturale che approda all'Umanesimo, con «un rifiuto radicale del passato cui doveva corrispondere l'instaurazione di altre forme di moralità».
Ma sul lungo periodo s'intravedono le fiamme in risposta alla predicazione di Tommaso Müntzer che ordinava di usare la forza «finché il fuoco arde», per non lasciar raffreddare il sangue sulla spada. L'esito è nel massacro dei contadini compiuto dall'artiglieria del cattolico duca di Sassonia.
Prima di quelle di Müntzer, ci sono le tragiche parole di Martin Lutero «Contro le bande brigantesche ed assassine dei contadini» (1525), con l'invito ai principi feudali ad usare spada e collera contro di loro: «Ammazzate, scannate, strangolate quanto potete…» (F. Gaeta, 1975). Prima ancora, il 23 maggio 1498, ci sono state le fiamme fiorentine per Girolamo Savonarola. Poi verranno quelle romane per Giordano Bruno, il 17 gennaio 1600.
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