• Nel celebre testo di F. Ughelli, "Italia Sacra sive de Episcopis Italiae" (tomo II, ed. II, Coleti, Venezia 1717) a col. 949 troviamo l'elenco dei tre prelati che recano il cognome Malatesti: Alessandro, Bartolomeo e Leale (nella doppia sede di Rimini e Pesaro).
    Di Bartolomeo abbiamo già trattato a parte.
    Qui parliamo di Alessandro.

    L'Alessandro Malatesti Vescovo forlivese (1470) di cui si legge in Ughelli, col. 624, è detto "filius Nanni de Malatestijs".
    Nato nel 1440, egli è altrove chiamato Alessandro Numai, parlandosi della forlivese chiesa di San Pellegrino e del monumento sepolcrale (a destra in principio della navata), fatto erigere nel 1502 da Luffo Numai per sé e la moglie Caterina Hieronima Paulucci: a sinistra dell'arco "è scolpito uno stemma episcopale con le iniziali AL[exander] NV[mai] (E. Calzini-G. Mazzatinti, "Guida di Forlì", 1893, p. 59).

    Ughelli precisa che il volgo aveva creduto che fosse figlio di Gugliemo Numai, e che la madre Elisa soltanto in punto di morte dichiarò la vera paternità, appunto questo "Nanni".
    Le “Memorie dei Filergiti” (di Giorgio Viviani Marchesi Buonaccorsi, Barbiani, Forlì 1741, p. 51) chiamano Agnese di Cecco dall'Aste la madre e Guglielmo il padre.
    Altrove, si legge di Agnese figlia di Cecco che è presunta moglie di Guglielmo Numai (cfr. A. Calandrini-G. Michele Fusconi, Forlì e i suoi vescovi: appunti e documentazione per una storia della chiesa di Forlì, Ravennatensia, II, 1985, p. 1019, dove si rinvia alle pp. 667-668).
    Restando a quel "filius Nanni de Malatestis", si può ipotizzare che suo padre sia Giovanni (da cui appunto "Nanni") di Ramberto Malatesti, famoso nelle vicende riminesi per la sedizione del 1431 contro Galeotto Roberto (L. Tonini, V, I, Rimini 1884, pp. 84-segg.).
    Contatti e scontri tra Rimini e Forlì sono all'ordine del giorno, in quel giro d'anni. Nel maggio 1439 Novello e Sigismondo Malatesti sono impegnati per conquistare Forlì, prima della tregua con gli Ordelaffi. I Numai sono famiglia considerata sempre fedele agli Ordelaffi medesimi.
    Un Sinibaldo Ordelaffi (scomparso nel 1386) aveva sposato la tredicenne Paola Bianca Malatesti figlia di Pandolfo II.
    Alla corte dell'Ordelaffi si segnala la presenza di don Giacomo Numai priore di quell'Ospedale.

    Pino de' Numagli da Forlì, conte e dottore in leggi, nel 1501-1502 è podestà di Rimini.
    Pino è nipote di Guglielmo, e figlio di Luffo che nel 1491 è segretario dei principi di Forlì e che aveva comprata casa in Rimini nella contrada di Santa Innocenza.
    Nei documenti dello Zanotti si legge "Pino de Numais".
    Queste notizie su Pino Numagli o Numai sono tratte dal sesto volume, parte II, della "Storia di Rimini" di Luigi Tonini, compilato dal figlio Carlo Tonini, pp. 100-101.

    Il nostro Vescovo Alessandro aveva dunque natali più illustri di quelli attribuitigli dalla madre? La quale, secondo quanto leggiamo, rivendicava la paternità del figlio a persona di nessun conto: Alessandro Numai (e quindi non Malatesti), leggiamo in Simona Cantelmi (DBI, 78, 2013), sarebbe stato figlio naturale di Guglielmo e di Elisa della Valle, la quale per altro l'11 ottobre 1478 in articulo mortis dichiarò che Alessandro era figlio suo e del marito, il mulattiere Nanne Bartoli.
    Cantelmi rimanda ai citt. Calandrini e Fusconi, per un altro loro testo ("Forlì e i suoi vescovi. Appunti e documentazione per una storia della Chiesa di Forlì. Il secolo XV", Ravennatensia, V, 1993, p. 667).
    Quindi quel Nanne mulattiere costringerebbe a cancellare la ricerca di un Nanni (Giovanni) Malatesti quale padre del vescovo Alessandro.
    Antonio Montanari



  • 1397. Frate Bernardino Manzoni, Inquisitore Pisano (ma soprattutto bibliotecario della Malatestiana di Cesena tra 1625 e 1626, come segnalato da A. Domeniconi [1963] e P. Errani [2009]), nel suo "Caesena Sacra" (Pisa 1643, I, p. 72) ricorda che nel 1397 Bartolomeo Malatesti, "Pandulphi Malateste Soliani Comitis [...] germanus frater" ed "ordinis Minorum Conventualium professus", è consacrato vescovo di Dragonaria (su questo dato, vedi la pagina "Enigmi").
    Di Pandolfo Malatesti, fratello di Bartolomeo, si precisa che "anno 1391 Patricius, Consiliarusque Caesenaticenis Urbis erat".
    Dal 4 gennaio 1391 i fratelli "Carlo Pandolfo Malatesta e Galeotto di Galeotto Malatesti" sono vicari di Cesena (Mazzatini, p. 325).
    Quindi Bartolomeo Malatesti è pure lui figlio di Galeotto I (+1385), nato da Pandolfo I, figlio di Malatesta da Verucchio.



    Sulla genealogia del vescovo Bartolomeo nulla scrivono Clementini ("Non ho trovato a chi fosse figliolo […] né donde discenda", II, p. 340) e L. Tonini ("pressoché ignoto", V, l, pp. 617-618).

    Il testo appena indicato come "Mazzatini, p. 325", è un documento pubblicato sempre in maniera erronea. Esso è contenuto nel volume di G. Mazzatinti "Gli archivi della storia d'Italia, I e II", apparso presso la casa editrice Licinio Cappelli di Rocca San Casciano nel 1897-1898 (nuova edizione presso Georg Olms Verlag, Hildesheim1988).
    Si tratta di un documento proveniente da Roma, come alla p. 322 dello stesso volume si precisa, riportando un brano del prof. Giuseppe Castellani che qui riproduciamo: "Mons. Gaetano Marini, profittando della carica di Prefetto degli Archivi apostolici del Vaticano, arricchì l'Archivio Comunale di Santarcangelo di Romagna, sua patria, della copia di una serie numerosissima di documenti, la maggior parte inediti, che si riferiscono alta storia del Comune di s. Arcangelo, o de' suoi cittadini, o delle terre e castelli che facevano parte del suo Vicariato".
    In esso si trova la data del 4 gennaio 1391 per il rinnovo dei vicariati da parte di Bonifacio IX ai figli di Galeotto I. Tale data è sempre apparsa come 3 gennaio.

    Sulla cit. da G. Castellani, si veda il suo "Il duca Valentino. Due documenti inediti", in "Atti e Mem. della R. Deput. di Storia patria per le prov. di Romagna", serie III, XIV (1896), pp. 76-79. La cit. è presa da p. 76.

    Il nome di Bartolomeo Malatesti è richiamato in un'opera di Poggio Bracciolini, "Contra hypocritas" (apparsa nel 1449), nel cui finale troviamo un'invettiva violenta diretta appunto al vescovo di Rimini, citando la sua morte recente.
    Bartolomeo scompare il 5 giugno 1448, per cui gli studiosi datano il testo di Bracciolini a qualche mese dopo.
    Bartolomeo è accusato di aver introdotto ridicole innovazioni nella cancelleria: cfr. Ernst Walser, "Poggius Florentinus Leben und Werke", Leipzig 1914, nota 1, p. 244.
    Qui si ricorda una lettera di Poggio diretta al veneziano Pietro Tommasi l'11 novembre 1447, in cui troviamo: "Nunc adversus ypocritas calamum sumpsi ad exagitandam eiusmodi hominum perversitatem".
    Tommasi è figura celebre per i suoi studi medici e letterari: cfr. F. M. Colle, "Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova", III, Tipografia della Minerva, Padova 1825, p. 232.
    Scrive Maria Luisa Gengaro che l'attacco a Bartolomeo Malatesti è dovuto al fatto che il vescovo aveva limitato lo stipendio di Poggio, allora presente alla corte di Rimini (cfr. p. 155 di "Paideia", 2-3, 1947).
    In numerose altre fonti bibliografiche si citano i rapporti burrascosi tra Poggio e Bartolomeo Malatesti (cfr. ad esempio i "Saggi sull'Umanesimo" di S. F. Di Zenzo, 1967, p. 29).
    Antonio Montanari

  • A proposito dell'Umanesimo tragico di cui ha trattato a Rimini il prof. Massimo Cacciari, riferendosi alla "Resurrezione di Cristo" di Piero della Francesca, una piccola ricerca su Internet permette di ricostruire la fortuna della formula.
    Nel 1994 appare nell'annuario del Centro mondiale di Studi umanisti, che ha un vago sapore esoterico più che di analisi della cultura dell'Umanesimo in senso stretto.
    Nel 2004, a proposto del proprio libro "Della cosa ultima", il prof. Cacciari dichiara al "Mattino" di Padova: "Da tempo vado pensando che occorrerebbe, anche sulla traccia dell’autentica storiografia filosofica italiana da Gentile a Garin, rivalutare la nostra tradizione. È un umanesimo tragico, ma appunto di una tragedia che si conclude con un Ma 'vittorioso'...".
    Nel 2005, il prof. Cacciari a Caserta tratta dell'Umanesimo tragico parlando di quattro testi letterari: il canto XXVI dell’Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l’Infinito di Leopardi. Ricorda anche il vero testimone dell’Umanesimo tragico, Leon Battista Alberti, consapevole che è una stupida pretesa quella di essere "fabbro del proprio destino".
    Nel 2007 a Milano, all'Università San Raffaele, si laurea brillantemente Silvia Crupano (Roma, 1983), con una tesi dedicata al pensiero tragico di Leon Battista Alberti: "Virtus contra fatum. La dialettica dell’Umanesimo tragico. Per una Filosofia della Storia" (relatore Andrea Tagliapietra, correlatore Ernesto Galli della Loggia).
    Nel 2010 il prof. Cacciari tiene una lezione magistrale a Napoli intitolata "L'umanesimo tragico di Leopardi".
    Per tornare all'inizio del nostro discorso, sarebbe molto importante che nella nostra città ci si decidesse a ricordare l'Umanesimo riminese, in cui confluiscono tutti i temi dell'Umanesimo italiano.
    Come dice il prof. Cacciari, "occorrerebbe rivalutare la nostra tradizione".

    Un'annotazione conclusiva. Cacciari collega il concetto di "tragico" al 1453, ovvero alla caduta di Costantinopoli. Forse si potrebbe andare un pochino più indietro, sino al 1415, anno in cui culmina la tragedia dell'Europa cristiana. Durante il Grande Scisma (1378-1417), Giovanni Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga è mandato al rogo, dopo essere stato invitato con salvacondotto imperiale a Costanza, dove si trovavano i padri conciliari. Inizia allora una fase drammatica in Boemia, che dura sino al 1433. Sono fiamme che ne preannunciano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno.
    Giustamente, Franco Cardini (come si legge sul "Ponte" del 5 febbraio scorso) smorza i toni dello "scontro di civiltà", che alcuni vorrebbero far iniziare appunto nel 1453 e culminare nel 1683, anno dell'assedio di Vienna. Cardini osserva: non fu un conflitto di civiltà, ma soltanto "storico". Da questa differenza Cardini arriva alla conclusione che non si debbono "incentivare pericolosi contrasti religiosi", partendo da episodi militari o politici che hanno provocato sì rotture ma spesso pure accordi.
    Nel suo libro recente dedicato all'argomento (pp. 3-8), introducendo il tema Cardini osserva che tre-quattro secoli sono stati "dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità".
    Pure questo aspetto riguarda Rimini da vicino. Sigismondo Malatesti fa il condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. La sua condotta non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistra, Sparta nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna.
    E con Plotone, oggi, si torna da dove si era partiti, a quell'Umanesimo riminese da studiare nella sua vera portata, al di là delle suggestioni esoteriche che nel 2001 portarono a proclamare (il povero) Sigismondo "massone ad honorem".


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  • L'Europa dei Malatesti

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  • SigismondoUn orologio turco per l'Europa
    Rapporti con l'Oriente dal tempo di Sigismondo al 1700

    Nella vicenda del 1461 che ha quali protagonisti Sigismondo Pandolfo Malatesti e Maometto II (vedi «il Ponte», 1.5 e 8.5.2005), ci sono altri aspetti molto interessanti da considerare per delineare alcuni tratti della Storia italiana in generale e non soltanto del secolo XV. Franco Gaeta (1978) esaminando la «leggenda» di Sigismondo, ha sostenuto che a formarla contribuirono pure i contatti con il Gran Turco. Tutto ciò restituisce oggi a Sigismondo stesso una fama allora oscurata dall'infamia. Ed attesta pure quanta differenza passi fra la Storia e la Politica. La prima cerca di raccontare i fatti. La seconda vuole affermare le proprie presunte verità.
    Abbiamo ricordato l'opinione di Giovanni Soranzo, secondo cui «era insussistente» l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo d'aver invocato l'intervento militare di Maometto II. Gaeta riprende il discorso di Soranzo, avanzando un'ipotesi. Se Pio II tacque su quell'accusa, per Soranzo la spiegazione più logica era che il papa non ne aveva trovato le prove, e quindi non aveva «validi argomenti» per produrla in atti ufficiali. Una «colpa» in più non avrebbe recato gran danno a Sigismondo. Di fronte al tribunale della Storia, occorre tuttavia procedere con grande cautela. Quella stessa cautela che ispirò forse Pio II facendogli tacere il particolare dell'invito (presunto) a Maometto.

    Il silenzio
    del papa
    Gaeta contesta la posizione di Soranzo: le ragioni del silenzio del papa non sono «quelle di un rigoroso accertamento della verità, dato che ragioni di questo genere non sembra abbiano avuto gioco nella lotta politico-diplomatico-propagandista-militare antimalatestiana». Gaeta riassume il grande paradosso della vicenda di Sigismondo: Pio II poteva sparare le accuse contro di lui senza preoccuparsi che esse fossero fondate, anzi più erano gravi e più s'imponevano soprattutto perché provenivano dalla suprema autorità della Chiesa, sul cui operato nessuno avrebbe dovuto avanzare dubbi.
    Gaeta ipotizza «ragioni d'altro ordine» per il silenzio sul fatto del 1461. Proprio fra l'ottobre ed il dicembre di quell'anno, «Pio II stava pensando anche lui ad un accordo col Turco e andava scrivendo la famosa lettera a Maometto II», alla quale abbiano già accennato, precisando che essa era intesa («ma forse solo apparentemente», come osserva Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. In quella lettera, aggiunge Gaeta, «erano contenute ben più gravi - anche se imaginifiche - proposte che quella di passare in Italia». Gaeta ricorda come ancora nel febbraio e nel marzo 1462 Pio II stesse lavorando alla lettera a Maometto II: «Dunque una specie di remora psicologica, forse ha trattenuto Pio II dal formulare quest'ultima accusa contro il Malatesta e forse anche la volontà di non diffondere una voce di questo genere in imminenza dell'auspicata crociata».

    Protagonista
    europeo
    Il discorso di Gaeta spiega come la figura di Sigismondo continui ad inquietare gli storici che se ne sentono attratti anche dal fatto che la sua demonizzazione affascina e convince ad approfondire i temi a cui essa è legata. Sempre più, ogni volta che appare qualcosa su Sigismondo, ci si accorge che quella figura ebbe un rilievo non soltanto italiano anche sotto il profilo culturale per cui va sottolineato, come abbiamo già sostenuto, che il suo Tempio rispecchia veramente i temi dell'intero mondo mediterraneo.
    In un recente volume di Ezio Raimondi («La metamorfosi della parola») è citato un pensiero di Henri Bergson, secondo il quale «è il futuro che ci permette di capire meglio il passato». Applicando questa massima filosofica alla vicenda malatestiana del 1461, si comprende facilmente come essa possa dimostrare la centralità del personaggio di Sigismondo nel quadro internazionale a metà del Quattrocento. Gli sviluppi successivi della Storia europea hanno rivelato come spesso (molto spesso) il tempo sul quadrante della vita dei popoli del vecchio continente sia stato scandito dall'orologio turco, su cui gli altri Stati hanno dovuto regolare i propri calendari politici. Basti ad accennare a due eventi. Il 7 ottobre 1571 la «lega santa» con una flotta comandata da don Giovanni d'Austria sconfigge a Lepanto i turchi. Che nel 1683 giungono sotto le mura di Vienna. La loro sconfitta il 12 settembre è celebrata in tutta l'Europa cristiana.

    Cultura
    per l'unità
    Tra queste due date si svolge un'intensa attività culturale, studiata di recente da Andrea Battistini nel volume «Il Barocco. Cultura miti immagini». Smorzatasi l'euforia di Lepanto, «l'Europa, sentendosi di nuovo minacciata dal pericolo turco, lancia da più parti appelli alla fratellanza» (pp. 74-75). Il farmaco capace di «medicare i traumi che hanno diviso il mondo cristiano» è l'enciclopedismo. A Rimini un esponente di questo indirizzo seicentesco è il sacerdote Giuseppe Malatesta Garuffi, 1655-1727, agguerrito difensore della grandezza di Sigismondo (v. «il Ponte» 5.10.2003). Ritorneremo altra volta su Garuffi, formatosi a Roma alla scuola gesuitica, in cui (secondo Battistini) l'enciclopedismo è un modo per raccordare Tomismo e nuova Scienza. Battistini sottolinea che «siffatti disegni di sintesi del sapere non sono una prerogativa secentesca», avendone espressi già l'Umanesimo oltre alla cultura classica con Quintiliano. Leggendo ciò, non si può non ricordare Sigismondo con il suo Tempio quale «summa» che, come già ci siamo espressi, racconta la continuità storica del mondo mediterraneo, e che è sintesi unificatrice rivolta a privilegiare l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune.

    Feste
    a Bologna
    A Bologna quando il 18 settembre 1683 giunge la notizia della liberazione di Vienna, il Legato fa distribuire abbondanti quantità di vino e di pane. Una cronaca registra «un rumore per la Città» che faceva pensare ad «una vera sollevazione». Dopo il solenne «Te Deum» celebrato in San Petronio, si festeggia per tutta la notte in piazza Maggiore, mentre i poeti danno sfogo alla loro ispirazione anche con poemetti in dialetto, come Lotto Lotti che dedica al conte Alessandro Sanvitali il poemetto giocoso «in lingua popolare» intitolato «Ch' n' hà cervel hapa gamb». Il 24 agosto 1684, durante la «festa della porchetta», il Senato fa rappresentare uno spettacolo sull'assedio di Vienna, tema che tornerà al teatro Malvezzi addirittura nel 1736 con un dramma replicato per tutto il periodo di carnevale.
    A Rimini nel settembre 1683 gli atti pubblici non segnalano nulla circa gli echi dei fatti viennesi, stando a quanto scrive Carlo Tonini: «ci reca meraviglia, che tra i documenti da noi veduti non ne rimanga memoria e che il 1683 sia tra quegli anni, che meno di tutt'altri somministrano materia alla storia nostra». E dire che, aggiunge, la nostra riviera era stata «tanto minacciata» in passato dalle scorrerie dei turchi. Va precisato che non tutti gli atti dell'archivio comunale, tranne il registro del pubblico Consiglio (ora in Archivio di Stato) di cui parla Carlo Tonini, sono sopravvissuti sino a noi.

    Davìa, un Nunzio
    a Rimini
    Nel 1684 come ingegnere alla spedizione militare della Lega santa nella guerra di Morea (Peloponneso), troviamo il futuro vescovo di Rimini, il bolognese Giovanni Antonio Davìa, poi presente all'assedio della fortezza di Santa Maura a Corfù, conclusasi con la capitolazione turca. Tornato in Italia, Davìa è mandato Internunzio a Bruxelles (1687). Nel 1690 è consacrato vescovo, e destinato alla nunziatura di Colonia, da dove è trasferito a quella di Polonia (1696). Il 18 marzo 1698 è nominato vescovo di Rimini. Due anni dopo, il 26 aprile 1700, è promosso alla prestigiosa nunziatura di Vienna, nei momenti difficili della guerra di successione spagnola (1702-1713). A Rimini si ritira il 25 maggio 1706.
    All'insegna di politica e vita militare si svolge negli stessi anni l'esperienza di un altro «viaggiatore» bolognese, Luigi Ferdinando Marsili che tra 1679 e 1680 va a Costantinopoli con l'ambasciatore della Serenissima Pietro Civran, ricavando dal viaggio il materiale per le «Osservazioni intorno al Bosforo tracio, overo Canale di Constantinopoli» che pubblica a Roma nel 1681 con dedica alla regina Cristina di Svezia. Si arruola l'anno dopo nell'esercito austriaco. Cade prigioniero, mentre i turchi sono sconfitti a Vienna. Liberato dietro pagamento d'un riscatto nella primavera del 1684, va militare in Ungheria, in Transilvania, in Ungheria, diventa colonnello, partecipa alle trattative con i turchi come osservatore non ufficiale (1691-1692). Lo sospendono dal comando del suo reggimento, in base ad accuse delle alte gerarchie. Presenzia i negoziati per la pace di Karlowitz del 1698 tra Austria, impero ottomano, Polonia e Venezia. Lo nominano «generale di battaglia».

    Il pericolo
    è a Mosca
    Tra 1698 e 1701 Marsili lavora lungo la linea del Danubio per concordare con i rappresentanti turchi una linea di confine. Per il collega orientale divenuto ormai suo amico, Ibrahim Effendi, Marsili fa costruire uno speciale orologio a sveglia capace di scandire le fasi del Ramadan. Il progetto di Marsili è quello di avvicinare i due imperi lungo il Danubio. Il fiume avrebbe trasferito in Oriente le nuove tecnologie europee, e veicolato in Occidente le ricchezze ottomane. Marsili denuncia a Vienna il pericolo costituito dal monarca moscovita, pronto a lanciare i cosacchi contro l'Ungheria. E suggerisce di fomentare una guerra fra russi e polacchi onde distogliere l'attenzione dei primi verso il Mediterraneo ottomano. Per favorire i turchi, secondo il progetto di Marsili, gli Stati cristiani avrebbero dovuto lottare fra loro. Ma proprio il re di Polonia aveva salvato l'Occidente sotto le mura di Vienna, quando Marsili era prigioniero dei turchi. Ora gli fa più paura il regno ortodosso che la fede in Maometto.
    Come ha osservato Fabio Martelli, da cui abbiamo ripreso queste notizie, il bolognese antepone la logica della Ragion di Stato ad un primato della Tolleranza. Marsili scrive le sue relazioni più scottanti al governo di Vienna nel tempo in cui il Nunzio apostolico nella capitale austriaca è Davìa. Nel 1714 Marsili fonda l'Istituto delle Scienze di Bologna ispirandosi ai modelli della londinese Royal Society (1662) e dell'Académie Royale des Sciences di Parigi (1666). All'Istituto Davìa nel 1725 dona vari strumenti scientifici tra cui un orologio. Diverso ovviamente da quello fatto costruire da Marsili per Ibrahim Effendi.


    Scheda

    Letterati al soldo
    «Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati. [...] Ma è l'Italia de' letterati, con il suo centro di gravità nelle corti. [...] I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio; il nemico del'oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto». Francesco De Sanctis, «Storia della letteratura italiana» (1870-71)

    Pio II e Maometto II
    Pio II (eletto nel 1458) compone nel 1461 in latino una «Epistola a Maometto», intesa («ma forse solo apparentemente», è stato osservato da Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. Papa Piccolomini è noto in campo storico-letterario per i suoi «Commentari» editi con mutilazioni a Roma nel 1584. Ha scritto Eugenio Garin che in essi «l'attenzione dell'uomo nuovo si rivolge a sé e al mondo con una concretezza veramente moderna». Pio II muore nella notte sul 15 agosto 1464. «Ha coltivato [...] il sogno anacronistico di una crociata: non di una guerra europea contro i turchi, ma proprio una crociata», pensando di coinvolgere il re d'Ungheria Mattìa  Corvino (Mátiás Hunyadi, 1440-1490), che ebbe vari contatti con l'Italia e che prese in moglie Beatrice di Napoli, figlia del re Ferdinando I d'Aragona (Giampaolo Dossena).

    Piccolomini e l'antipapa
    Quando Niccolò V emana il decreto conciliare (1439) per l'unione delle due Chiese, a Basilea si elegge un antipapa, Felice V, il principe Amedeo VIII di Savoia, scomunicato immediatamente dal concilio di Firenze. Fra i suoi elettori c'è Enea Silvio Piccolomini che divenne il suo segretario particolare, prima di lasciarlo per passare al servizio di Federico d'Asburgo, e di riconciliarsi con il pontefice romano, Eugenio IV. Prese gli ordini sacri e divenne nel 1447 vescovo di Trieste. «Nove anni dopo era cardinale, due anni dopo papa», il Pio II nemico di Sigismondo. (F. Rondolino)

    «Cospirò» dice il romanziere
    Il Malatesti voleva nel 1461 «aprire al Turco le porte dell'Europa», ha scritto il romanziere Alberto Cousté in «Sigismondo» (1990): «per lui, ansioso d'assoluto, ogni eccesso era un tentativo di sintetizzare l'universo» (pp. 360-1).
    (3 - fine)

    Antonio Montanari

    I due precedenti articoli della serie si leggono qui:

    1. Sigismondo il terrorista

    2. 1461 Venezia contro Rimini


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