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Il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi (sacerdote e direttore della Biblioteca Gambalunghiana dal 1678 al 1694) nel 1718 contesta il padre francescano Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, accusandolo di aver scritto nel 1628 calunnie contro il Tempio. Wadding sostiene che Sigismondo dedica il Tempio a san Francesco, ma lo riempie di immagini con miti pagani e simboli profani, aggiungendovi un mausoleo per la sua amante con un epitaffio pagano: "Dedicato alla divina Isotta".
Pio II aveva accusato Sigismondo d'aver ripudiato la prima moglie, avvelenata la seconda, strangolata la terza. Garuffi difende Sigismondo: la prima moglie era la figlia del Carmagnola, egli rifiutò di sposarla dopo la condanna a morte del futuro suocero (1432). Per Ginevra d'Este, la seconda (ma in realtà la prima ad essere impalmata), il sospetto di una morte per veleno fu diffuso dai parenti del Carmagnola. Circa Polissena Sforza, Garuffi spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito "per giusta ragione di Stato" avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito, "alcuni militari segreti del consorte". Infine Garuffi scrive che Isotta era stata sposata da Sigismondo, quindi non era sua amante.
Garuffi passa alla difesa del Tempio, con la descrizione delle singole cappelle, riservando la conclusione al problema della scritta sulla tomba d'Isotta: "D. Isottae Ariminensi B. M. sacrum. MCCCCL". Quel "D." sta ad indicare "Dominae" e non "Divae" come aveva interpretato Wadding. Ma se anche fosse come proponeva lo storico francescano, spiega Garuffi, non ci sarebbe nulla di male, perché chiamare "diva" Isotta significava soltanto usare un titolo degno per la moglie di un principe, senza alcun "sentore di gentilesimo", cioè di paganesimo. (Sul "B. M." gli studiosi si sono sbizzarriti: beata o buona memoria, oppure benemerita.)
Fortunatamente Wadding non sapeva quanto scoperto nel 1912 da Corrado Ricci. La discussa iscrizione per Isotta era stata sovrapposta ad un'anteriore, ancora più compromettente: "Isotae ariminensi forma et virtute Italiae decori. MCCCCXLVI". Era di un'audacia scandalosa quel "decoro d'Italia" riservato ad una giovinetta come Isotta che aveva circa tredici anni nel 1446, quando fu sedotta da Sigismondo mentr'era ancor viva la moglie Polissena.
Isotta nello stesso anno concepì da Sigismondo un figlio, Giovanni, che morì in fasce il 22 maggio 1447.
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I bassorilievi della Cappella dei Pianeti mostrano la convinzione di Sigismondo che "è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri", scrive Franco Bacchelli (2002). Il quale osserva che si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del "De re militari" di Roberto Valturio, nella quale si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia".
Bacchelli riporta "la fulminante diagnosi espressa" da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, nel quale leggiamo: "Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica, anche nella forma allora e poi normale dell'astrologia giudiziaria".
Il principio per cui bisogna ricercare nei cieli la causa dei fatti, aggiunge Baccheli, era "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine del XV secolo "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Per Pico il disordine del mondo deriva soltanto dalle imperfezioni del mondo stesso. Egli considera l'uomo come creatura dalla natura illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente così al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso può sì "degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti", ma può anche rigenerarsi "nelle cose superiori che sono divine".
Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro Tempio, dove esso però soccombe davanti all'immagine del Cristo Crocefisso che svela agli occhi semplici di ogni cristiano la natura folle di quel sogno.
San Tommaso aveva scritto che "contro l'inclinazione dei corpi celesti l'uomo può operare con la ragione".
Nel canto XVI del "Purgatorio", Marco Lombardo spiega la teoria del libero arbitrio con tre versi che sono centrali nel poema dantesco e rimandano alla teologia di san Tommaso: "A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura" (79-81). Marco Lombardo dichiara che gli uomini solitamente attribuiscono quel male "al cielo", togliendo all'uomo il libero arbitrio e la giustizia nel premiare o punire i nostri comportamenti.
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Nella facciata del Tempio malatestiano c'è "l'arco trionfale della romanità laica e profana" (M. Guerra, 2007). Il richiamo al passato è un manifesto culturale che nasce dall'insegnamento degli umanisti. Ad "un rifiuto radicale delle linee politiche e culturali di una storia di decadenza moderna", si contrappone "l'instaurazione di altre forme di moralità, di un diverso rapporto con la società e con la natura" (C. Vasoli 2012), con il recupero degli esempi classici degli antichi.
Contemporaneo al Tempio è un testo di Giannozzo Manetti (1396-1459) in cui si celebra l'eccellenza dell'agire umano, così come Alberti fa nel "Libro della famiglia" lodando chi trova "nella buona e santa disciplina del vivere" una sicura regola di comportamento pubblico e privato (C. Vasoli).
Il mito umanistico della "rinascita", ispirato ad una morale fortemente laica e borghese, si esprime nelle forme della tolleranza e della sintesi, scrive Marta Guerra. Pio II papa dal 1458 affida il proprio programma intellettuale alla realizzazione di Pienza, "città ideale", esempio di un Umanesimo urbanistico. Ciò, aggiungiamo, non gli impedisce di scontrarsi con l'umanista Sigismondo, a dimostrazione di quanto sia contraddittoria l'esistenza umana.
Ezio Raimondi, ad un convegno riminese del 2001, spiegava che nell'Alberti umanista "è centrale la dimensione problematica, l'interrogazione sulla vita dell'uomo, fatta non solo di dignitas, ma anche di miseria".
Senza prudenza non c'è vera sapienza, secondo Coluccio Salutati (1331-1406), cancelliere della Repubblica fiorentina dal 1375 alla scomparsa. E la vera sapienza è quella che procura il bene comune, e permette a tutti di accedere alle cariche pubbliche. Questa dimensione non è presente nella biografia di Sigismondo, ma si può intravedere nella parte esterna del suo Tempio, dove sono collocate quattro tombe di "prestantissimi Poeti e Filosofi": Basinio Parmense, Giusto de' Conti, Gemisto Bizantino e Roberto Valturio (L. Tonini, 1864). La quinta tomba ospita due medici di Casa Arnolfi. La sesta è dedicata a Sebastiano Vanzi, sepolto ad Orvieto di cui fu vescovo. La settima fu concessa al medico Bartolomeo Traffichetti.
Il "Gemisto Bizantino" non sarebbe il noto filosofo Giorgio Gemisto Pletone del sec. XV, ma un altro pensatore del sec. IV, essendo stato rinvenuto (1757) nella tomba non il corpo intero di un defunto del 1451, ma uno scheletro scomposto in un panno di lana rossa.
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Nel 1453 prende forma il Tempio riminese con le pareti esterne secondo il disegno di Leon Battista Alberti. Due anni prima Piero della Francesca ha firmato l'affresco nella cella delle Reliquie, ed il primo maggio 1452 è stata consacrata la cappella di san Sigismondo re di Borgogna, la cui statua è opera di Agostino di Duccio.
Nell'affresco Sigismondo fa celebrare il proprio protettore con le fattezze dell'omonimo imperatore (1368-1437) il quale nel 1433 era stato incoronato a Roma ed aveva visitato Rimini, concedendo il 3 settembre la sua investitura allo stesso Sigismondo ed al fratello Malatesta Novello.
Nel 1453 la caduta di Costantinopoli provoca forte tensione internazionale. Papa Niccolò V parla dell'avvento della bestia dell'Apocalisse, avanguardia dell'Anticristo. Il 24 novembre 1450 a Fabriano Niccolò V ha mandato al rogo tre "Fraticelli" di una congrega francescana. Nel 1453 fa impiccare Stefano Porcari, amico di dotti umanisti, per il suo tentativo di abbattere il potere temporale.
La conquista di Costantinopoli provoca sgomento. Il vescovo di Siena Enea Silvio Piccolomini (futuro Pio II, e grande avversario di Sigismondo) scrive a Niccolò V: "mi vergogno di vivere, almeno fossi morto". Niccolò V si converte allo spirito di crociata contro i turchi. Il 18 aprile 1454 Venezia stipula un accordo con Maometto II.
Nel 1461 Maometto chiede al signore di Rimini il favore d'inviargli Matteo de' Pasti per farsi ritrarre. Matteo si trovava a Rimini dal 1446, per lavorare all'interno del Tempio. Sigismondo accetta ed invia a Maometto II tramite Matteo una lettera in latino composta da Roberto Valturio, il suo "più dotto e benemerito segretario".
La missione di Matteo de' Pasti non va in porto. Nel novembre 1461 è catturato in Candia e condotto a Venezia dove lo processano, riconoscendolo innocente e liberandolo.
Da Venezia si diffonde tramite la corte milanese la falsa notizia che Sigismondo aveva cercato di contattare Maometto per esortarlo a venire a combattere in Italia. Il nuovo papa Pio II che stava allora esaminando la "posizione" di Sigismondo (sarà scomunicato il 27 aprile 1462), è dello stesso parere.
Secondo G. Soranzo (1909), l'accusa rivolta al nostro principe era "insussistente". Tuttavia essa circolò da Milano sino a Napoli per denigrare Sigismondo come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta. Insomma, lo presentavano come "terrorista" al soldo del Turco.5.a. Documenti. Il contesto nazionale ed internazionale [2005]
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Nel 1397 lo zio Carlo Malatesti ha dato scandalo con la rimozione della statua di Virgilio a Mantova gettata nel Mincio, per segnalarsi al potere ecclesiastico e garantirsi quella carriera che lo porta il 4 luglio 1415 al Concilio di Costanza, dove legge la bolla di rinuncia di papa Gregorio XII (scritta a Rimini il 13 marzo), al fianco dell'imperatore Sigismondo.
Coluccio Salutati accusa Carlo di aver compiuto un gesto oltraggioso verso la poesia. Poggio Bracciolini descrive Carlo come "deditissimo agli studj della letteratura e vago oltremodo di ragionare con dotti uomini ed ingegnosi". Per quegli studi diventa celebre pure il cardinal Galeotto, in stretti rapporti con l'ambiente umanistico di Parigi.
Al Virgilio gettato nel fiume (perché oggetto di un culto superstizioso, secondo F. Foschi [2001]), si contrappone con Galeotto la ricerca di una nuova prospettiva filosofica, la "comunione degli uomini nel mondo umano" (E. Garin, 1949). Sigismondo accetta questa visione progettando con Alberti nel Tempio riminese la Cappella delle Arti liberali: qui la cultura è letta come itinerario per realizzare la "città giusta".
Dietro al sogno umanistico, ci sono le fiamme "conciliari" di Costanza, con la messa a morte in nome della Croce, di Giovanni Huss (1415) e Girolamo da Praga (1416). E davanti, quelle che bruciano Savonarola a Roma (1498).
Le Arti liberali spiegano: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia. Si studiano Letteratura, Storia, Retorica, Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica. La Natura si conosce attraverso Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica. La Cultura (raffigurata come Concordia, Città giusta e Scuola) educa ad una vita tra cittadini uguali e quindi liberi, secondo l'"umanesimo civile" di Leonardo Bruni. Lo studio delle "humanae litterae" per Poggio Bracciolini ha un valore formativo umano e civile: i classici sono maestri di virtù civili come sostenuto da Coluccio Salutati.
La Concordia riguarda pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 ma di breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa. Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe (di Malatesta I, detto "dei Sonetti" di Pesaro e di Elisabetta da Varano), scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa (1433), lasciando una figlia, Elena (nata tra 1427 e 1428), che sposa il re di Cipro.
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