• 8. La visita a Valence


    Galeotto di Pietramala resta per più di tre mesi a Valence [cfr. R. Brun, «Annales avignonnaises de 1382 à 1410 extraites des archives de Datini, dans Mémoires de l'Institut historique de Provence, p. 40]. Il Vescovo di Valence è dal 1390 Jean Gérard de Poitiers (ca. 1368-1452), succeduto a Amedeo di Saluzzo (1361-28.6.1419).
    Amedeo di Saluzzo era legato a Galeotto di Pietramala dallo stesso interesse verso la cultura, appartenendo a quel «cenacolo umanistico formato dai chierici ed intellettuali, i quali ruotavano attorno a Benedetto XIII ed alla sua celebrata biblioteca ricca di opere giuridiche e stupefacente per i testimoni della classicità che vi venivano custoditi» [cfr. A. Bartocci, «Il cardinale Bonifacio Ammannati legista avignonese ed un suo opuscolo contra Bartolum sulla capacità successoria dei Frati Minori», «Rivista internazionale di Diritto Comune», 17, Roma 2006, pp. 251-297, p. 267].
    Coville osserva: «le cardinal qui à Avignon attirait le plus volontieri écrivains et humanistes était Galeotto» [cfr. A. Coville, «La vie intellectuelle dans les domaines d'Anjou-Provence de 1380 à 1435», Parigi 1941, p. 403].
    Degli episcopati di Valence e di Die, Amedeo di Saluzzo è amministratore tra novembre 1383 e giugno 1388. Il 23 dicembre 1383 Amedeo è creato Anticardinale da Clemente VII, il cui padre era cugino della madre di Amedeo, Beatrice, figlia di Ugo conte di Ginevra [cfr. P. Rosso, «Cultura e devozione fra Piemonte e Provenza. Il testamento del cardinale Amedeo di Saluzzo (1362-1419)», Cuneo 2007, p. 13].
    Il nuovo Antipapa Benedetto XIII (eletto il 28 settembre 1394) invia poi Amedeo di Saluzzo in legazione a Ferdinando re di Aragona. Successivamente (1390) Amedeo lascia il partito di Benedetto XIII e s'accosta a quello di Bonifacio IX (eletto nel 1389), il quale lo nomina cancelliere della Chiesa di Roma. Nel 1403 Amedeo diventa Camerlengo e Protodiacono del Sacro Collegio.
    Insomma, l'itinerario di Amedeo di Saluzzo rassomiglia molto a quello di Galeotto di Pietramala. Il quale propone pubblicamente il percorso di risoluzione dei contrasti tra Roma ed Avignone, con la «via cessationis» o «via cessionis», consistente nelle dimissioni del Pontefice di Avignone, quel Benedetto XIII presso cui si era rifugiato lo stesso Galeotto.
    Poi Galeotto giustifica lo stesso Pontefice per la sua risposta negativa alla sua proposta, contenuta nella già ricordata epistola «Ad Romanos» del 1394.
    Va ricordato pure il ruolo del re di Francia Carlo VI che intendeva riunificare la cristianità come scrive Franco Gaeta, op. cit.], partendo proprio dalla «via cessionis» della rinuncia di entrambi i Papi. Il rifiuto che esprimono, porta la Francia a sottrarsi (1407) alla loro obbedienza, e provocano la crisi dell'autorità papale, poi risolta soltanto al Concilio di Costanza.
    Il soggiorno di Galeotto a Valence va collegato anche a quanto si prepara appunto in Francia, ricordando che la corona «fece deliberare la sottrazione d'obbedienza dall'assemblea del clero tenutasi a Parigi tra il maggio e l'agosto 1398» [Rosso, op. cit., p. 18].
    Scomparso Clemente VII il 16 settembre 1394, Galeotto da Pietramala si trova al conclave per l'elezione (28 settembre) del nuovo Antipapa Benedetto XIII, l'aragonese Pedro Martínez de Luna (1328-1423).
    Poco dopo, comunque prima di dicembre [Ornato, op. cit., p. 28], Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent», come leggiamo in Stefano Baluzio [op. cit., col. 1363].

    Riproduciamo qualche brano di questa epistola «Ad Romanos» [col. 1544].
    «Tempus est jam, si Deus adjuverit, fugare tantam pestem. et tartari claudere portas, ne schismaticorum spiritus repleautur in posterum, faucesquae satanae insatiabiles stringere, ne christiano cibo quotidie epuletur. In hoc vos meditar decet, in hoc animi vires colligere, in hoc omnis vestra debet esse intentio, ut ecclesiam resarcitam Domino praesentetis, quam sic inconsulte, dividere non puduit».
    Come agire?
    «Schisma in potestate nostra creare, nutrire ac fovere possumus, illud autem tollere, cum velimus, non est nostrum.»
    Poi Galeotto parla di Benedetto XIII, «qui potens est et vult omnes nostros morbos curare, sed illos praesertim qui schismatis putredine catholica corpora corruperunt». Ai Romani dice: «Audite, quaeso, monita sua sancta, salubres eius preces esaudite».
    Infine Galeotto tesse un incondizionato elogio di Benedetto XIII: «Ejus mores et integritatem, benignitatem, mansuetudinem, caritatem, pietatem, sinceritatem, aliis forte in populis predicare non incongruum, vobis autem jam diu persuasum esse scio. Nostis hominem et ejus virtutes».
    Benedetto XIII ha scelto di riunire la Chiesa, per presentarla a Dio tutta risarcita, lui che la trovò così lacerata: «optat interimere schisma, et jam foedam belluam mactare sua manu». Per questo vi incita, ed implora il vostro aiuto. Partendo da ciò, Galeotto prega i Romani di appoggiare Benedetto «ad candidam ecclesiae unionem».
    Come si è visto, le speranze di Galeotto vanno deluse, perché Benedetto XIII cambia opinione.


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  • 7. Notizie italiane


    Nel frattempo è nata (1396) la lega di Carlo VI con Firenze, Ferrara, Mantova e Padova contro i Visconti.
    Capitano è nominato Carlo Malatesti (fratello di Rengarda, la madre del nostro Cardinale), che nel 1397 a Mantova fa rimuovere un'antica statua di Virgilio, con un gesto ritenuto da Coluccio Salutati oltraggioso verso la poesia, e da Pier Paolo Vergerio indegno d'un principe che pretenda di amare gli studi e la storia.
    Quello di Carlo è soltanto un atto politico per segnalarsi al potere ecclesiastico, «credendo un delitto che i cristiani venerassero un uomo non cristiano», come si legge nella biografia di Vittorino da Feltre scritta (1474 ca.) dal suo allievo mantovano Francesco Prendilacqua [«De vita Victorini Feltrensis», Typiis Seminarii, Patavii 1774, p. 93].
    Circa i Visconti, abbiamo ricordato che Galeotto Tarlati nella sua fuga dal Papa romano Urbano VI aveva trovato rifugio proprio a Milano presso Gian Galeazzo Visconti. Ed al Visconti Galeotto resta legato, se nel 1390 da Avignone gli scrive auspicando che il vessillo della vipera sventoli sulle sponde dell'Arno, e nel 1391 gli indirizza «una lettera tutta vibrante d'odio contro Firenze» scrive Francesco Novati [«Due lettere del cardinale di Pietramala a Gian Galeazzo Visconti (1390-91)», Archivio storico lombardo, 43, 1916, pp. 185-191, pp. 185-186].
    Il nome di Carlo Malatesta va infine legato alle nozze fra la sua nipote Antonia e Giovanni Maria Visconti.

    Galeotto «combattendo Firenze colla penna intendeva venir in soccorso de' congiunti suoi che l'assalivano colla spada», commenta Novati [p. 187].
    «Florentiam ipsam, valido exercitu circumdate»: è l'invito (anzi una specie di ordine di etica politica, più che un piano di strategia militare), che la penna di Galeotto indirizza al Visconti nella prima lettera: «Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes, unde armorum gentibus subvenitur: nichil erit impossibile eis, dum eorum ager sine hoste erit, dum nudus agricola solvet ad occasum boves quos ad solis ortum ligaverat; dum lanarum colos trahent ruricole mulieres; dum lucrum diei avarus sed quietus mercator numerabit ad vesperum» [pp. 189-190].
    Nella seconda lettera, Galeotto ribadisce che è necessario attaccare la Toscana: «in Tusciam cum reliquis est vertenda manus. Illic bellum extinguatur ubi ortum habuit; illic victoria habeatur, ubi sunt hostes; illic pena infligatur, ubi scelera sunt patrata» [pp. 190-191].

    La cronaca politica resta sullo sfondo del giudizio che Francesco Novati compone di Galeotto («Adorno di belle doti morali ed intellettuali»), partendo proprio da quelle due lettere del 1390-91, le quali a suo parere dimostrano «come i contemporanei avessero ragione di lodar l'ingegno e la dottrina del porporato aretino» [p. 188].
    Novati osserva pure che la lettera del 1391 era anche vibrante «di gioia per la morte» del conte Giovanni d'Armagnac, ucciso alle porte d'Alessandria mentre combatteva ingaggiato dal doge di Genova «ond'annientare la potenza di Gian Galeazzo Visconti» [p. 185].
    Sulla scorta di una nota di Novati [p. 185, nota 2], troviamo nelle «Memorie spettanti alla storia di Milano» (curate da Giorgio Giulini (1714-1780), vol. V, Colombo, Milano 1856, p. 764): «Alcuni scrittori, col nostro annalista milanese, dicono ch'egli [Giovanni d'Armagnac] era ferito; ma i cronisti di Piacenza e di Bergamo, e l'Estense, più giustamente affermano che la grande stanchezza e il caldo sofferto in quel cocentissimo giorno lo ridussero a morire».
    Novati aggiunge: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan senz'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [ib., pp. 186-187].
    Novati [p. 186, nota 2] riporta una lettera di Coluccio Salutati (Cancelliere della Repubblica di Firenze dal 1375 al 1406), in cui il comportamento antifiorentino dei Tarlati di Petramala è deriso con un gioco di parole sul cognome: Tarlati si dice degli alberi putrefatti, e Petramala deriva da «pietra» che sta a signifcare durezza ed ostinazione. Essi, conclude Salutati, «sunt turbatores pacis, insidiatores viarum, mercatorum spoliatores, peregrinorum homicidae et infames latronum principes et fautores».

    Su Galeotto, prosegue Novati: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco. Scoppiato lo scisma, il feroce pontefice lo prese in sospetto; credette, a ragione ovvero a torto non sapremmo decidere, che avesse preso parte al complotto ordito in Genova per sottrarre a morte i cardinali che egli voleva sacrificare alla propria vendtta; ed il Tarlati in pericolo di finir male dové cercare scampo nella fuga. Recossi allora a Pavia, quindi ad Avignone, dove rinnegando il passato riconobbe come vero pontefice l'antipapa Clemente. Ripagato da costui colla dignità cardinalizia di S. Giorgio in Velabro, Galeotto non lasciò più la Francia, donde continuò, fin che gli durò la vita, a tramare insidie contro i suoi nemici maggiori: Firenze ed Urbano» [pp. 187-188].
    Novati scrive anche: «Firenze aveva mossa ai Tarlati una guerra senza quartiere, cercando d'annichilirne la potenza, come aveva distrutta a poco a poco quella de' Guidi, degli Ubaldini e di tant'altri signorotti minori. Costretti a difendersi incessantemente contro l'implacabile avversaria, i Tarlati davan sen'esitare l'aiuto loro a tutti i nemici di lei; in tutte le guerre, grosse o piccine, che Firenze ebbe a sostenere durante il secolo decimoquarto contro i suoi vicini, essa si trovò ognora di fronte i signori di Pietramala. Ed anche nel 1390, non appena che il Visconti s'era deciso a bandire la guerra contro di essa, egli aveva ritrovato ne' Tarlati degli alleati modesti, ma fedeli, tanto più fedeli quanto più la caduta d'Arezzo nelle granfie de' fiorentini aveva esasperato il loro aborrimento ed accresciuti i loro terrori» [pp. 186-187].

    Se quella lettera di Galeotto diretta al Visconti di Milano, è «tutta vibrante d'odio contro Firenze», come scrive Novati, è perché in essa si proiettano ricordi di famiglia, e s'affacciano motivazioni legate ad una concezione della vita politica tipicamente medievale, in quanto avversa alla gente «nova» che vi stava emergendo.
    Non c'è quindi nell'atteggiamento politico di Galeotto verso Firenze soltanto una chiave autobiografica, ma anche il riflesso di quelle concezioni di cui parla il già ricordato Huizinga nel suo celebre saggio «L'autunno del Medioevo», laddove spiega che «il concetto della divisione della società in classi pervade fino in fondo, nel Medioevo, tutte le considerazioni teologiche e politiche» [p. 74].
    C'è anche in Galeotto la concezione gerarchica della società che Huizinga descrive nel terzo capitolo del suo saggio, dove ricorda l'attribuzione alla nobiltà del compito di difendere il mondo, di promuovere la virtù e mantenere la giustizia [p. 82].
    Firenze era la città che aveva soffocato a mano armata il tumulto dei Ciompi (agosto 1378).
    Chiesa ed aristocrazia in Italia avevano vivo il ricordo di quanto accaduto a Parigi nel 1358, con la salita al potere di un mercante, Étienne Marcel, grazie all'azione della borghesia cittadina che così si contrapponeva alla politica monarchica e della nobiltà che la sosteneva. E con l'uccisione dello stesso Marcel, che aveva tentato di collegare la rivoluzione parigina con la rivolta nelle campagne, guidata da un vecchio soldato (Charles Guillaume, sconfitto e ghigliottinato), e soffocata nel sangue.

     

    Nota. Galeotto, il politico.
    Abbiamo letto in Novati su Galeotto: «Urbano VI l'avea creato Cardinale diacono di S. Agata. Ma la sua fortuna durò poco…» [pp. 187-188].
    Novati come fonti cita L. Cardella, «Memorie storiche de' Cardinali della Santa Romana Chiesa», II, Pagliarini, Roma 1793 e N. Valois, «La France et le Grand Schisme d'Occident», II, Paris 1896.
    Sull'intervento di Giovanni d'Armagnac, cfr. A. Antonielli, F. Novati, «Un frammento di zibaldone cancelleresco lombardo del primissimo Quattrocento. Testo ed illustrazioni storico-critiche ai documenti contenuti nel Frammento Pallanzese», Archivio Storico Lombardo, 1913, Serie IV, vol. 20, fasc. 40, pp. 304-305.
    Giovanni d'Armagnac stipula il 16 ottobre 1390 a Mende un trattato con la repubblica toscana. Il 26 luglio 1391 il suo esercito è «tagliato a pezzi dalle truppe viscontee».
    Circa Giovanni d'Armagnac, ricordiamo che era il fratello di Beatrice d'Armagnac, detta «la gaie Armagnageoise», moglie di Carlo Visconti dal 1382. L'anno prima Beatrice era rimasta vedova di Gaston de Bearn o de Foix, nato nel 1365.
    «Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con quai mezzi l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia un corpo di diecimila Francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac»: cfr. P. Verri, «Storia di Milano» I, Marelli, Milano 1783, p. 412.
    Tra le genti d'arme assoldate nel 1388 c'è un Giantedesco da Pietramala, figlio di Marco, considerato valorosissimo, e celebrato capitano di ventura, poi onorato da una statua equestre di Giacomo della Quercia nel Duomo di Siena.
    In margine alla prima lettera, laddove Galeotto accusa quel sistema che genera la ricchezza della nuova società fiorentina («Illa, illa urbs petenda est, unde pecuniarum auxilia prodeunt, unde erumpunt fraudes...»), si può osservare che nel nostro Cardinale agiscono non soltanto gli istinti legittimi della difesa di interessi famigliari, ma incontriamo pure una ben precisa visione politica, tipica della gerarchia ecclesiastica, non basata sul valore del censo economico "conquistato" e non ereditato, ma su quello che scaturisce dall'esercizio del potere e delle armi che lo sorreggono.
    Già i Comuni avevano spogliato i Vescovi della giurisdizione politica sulle città. La posizione di Galeotto è quindi una significativa immagine dello scontro ideologico, si direbbe oggi, che agita il suo tempo.

    Nota bibliografica.
    La lettera di C. Salutati è presente alle pp. 190-191 di P. Durrieu, «La prise d'Arezzo par Enguerrand VII, sire de Coucy, en 1384», Bibliothèque de l'école des chartes, 1880, tome 41, pp. 161-194; ed alle pp. 233-234 di U. Pasqui, «Documenti per la storia della città di Arezzo nel medio evo», III, Firenze 1937.


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  • 6. I giuochi del potere


    Clamanges, autore della «Epistola XII, Mallem tibi laetiora», era divenuto segretario di Papa Benedetto XIII su raccomandazione dello stesso Galeotto. Con cui aveva mantenuto particolari rapporti di amicizia.

    Galeotto «lo accolse con ogni sorta di amorevolezze, gli mostrò la sua biblioteca e lo fece padrone di usarne, e lo presentò al papa e agli altri cardinali», si legge in un volume fiorentino del 1890 [cfr.: G. Voigt, D. Valbusa, G. Zippel, «Il risorgimento dell'antichità classica. Il primo secolo dell' umanismo», II, Firenze 1890, pp. 340-341].
    Questa frequentazione permetteva a Nicola di Clamanges di conoscere tutti i risvolti, anche i più segreti, della vita di Galeotto. E di interpretarne pure le intenzioni eventualmente non espresse per non nuocere ai propri progetti.

    Perché nel settembre 1397 Galeotto si allontana da Avignone?
    Quello è un particolare momento non soltanto della storia generale del regno di Francia, quando Carlo VI (in carica dal 1380) cerca di chiudere il Grande Scisma che durerà sino al 1417; ma pure della biografia di Galeotto, privato dei redditi della località di Noves già riconosciutigli dal Papa Clemente VII, per colpa di Gilles Bellemère (1342-1407), esponente di spicco della corte di Avignone, di cui diventa vescovo nel 1392, come si legge in un testo di Henri Gilles [«La vie et les œuvres de Gilles Bellemère», Bibliotheque de L'Ecole des Chartes, CXXIV, Paris 1966, p. 116-117].
    Di Clemente VII, Bellemère fu anche ambasciatore presso Carlo VI. Divenne famoso grazie ai suoi «Commentari» al «Decretum Gratiani» o «Corpus iuris canonici» (XII sec.), editi nel 1548.
    «Un homme fort près de ses intérêts», lo definisce Henri Gilles. Bellemère era in contatto con gli intellettuali umanisti di Avignone, quindi pure con lo stesso Galeotto che di quel gruppo era il protettore (Coville, p. 406). E Galeotto deve aver considerato il gesto di Bellemère un tradimento pieno di pericoli per il suo futuro.
    La questione si trascina dal marzo 1394 all'agosto 1397. Quando Galeotto protesta perché privato dei redditi di Noves. Ma fa altrettanto, e soprattutto «bien fort», lo stesso Bellemère scrivendo persino un trattato per dimostrare in punta di Diritto romano «la justesse de ses prétentions». Per rafforzare «son droit sur Noves», il Bellemère invita «les habitants à prêter un serment public d'obéissance à sa personne, à son église et à sa cour de Noves» [H. Gilles, pp. 117-118].
    Siamo proprio alla vigilia della partenza di Galeotto di Pietramala da Avignone per Valence.

    Gilles Bellemère era stato preso a servizio dal Cardinale Pierre Roger de Beaufort, futuro Gregorio XI, «en qualité de chapelain et de commensal» (cappellano e famiglio), all'inizio del 1367 ad Avignone. Dove arriva al momento in cui «la cour pontificale faisait ses préparatifs de départ» verso Roma [H. Gilles, pp. 38-39].
    Urbano V parte da Avignone venerdì 30 aprile, e passa a Marsiglia dove s'imbarca per il Lazio, giungendo al porto di Corneto in Maremma, accompagnato da sette Cardinali.
    Altri quattro Cardinali seguono il diverso itinerario «flaminio», che ha un'indubbia valenza politica: provenendo da Modena, passano per Rimini tra 11 e 25 giugno 1367.
    Sono Pierre de Monteruc (11 giugno), e Stefano Aubert (18 giugno), due cugini, figli di fratelli di papa Innocenzo VI (Étienne Aubert, 1282-1362), che viaggiano separatamente.
    Assieme invece giungono il 25 giugno altri due cugini, Nicole de Besse, Cardinale di Limoges, ed il nostro Pierre Roger de Beaufort, un cui zio fu Clemente VI, Pierre Roger, quarto papa d'Avignone, dal 1342 al 1352. [H. Gilles a p. 39 in nota 5 rimanda a «Cronache Malatestiane dei secoli XIV e XV», tomo XV, 2 di «Rerum Italicarum Scriptores», a cura di A. F. Massèra, Bologna 1922, p. 29].
    Pandolfo II, figlio di Malatesta Antico, il 16 ottobre 1367 partecipa con lo zio Galeotto I (il nonno del nostro Cardinal Galeotto), a Roma, al corteo per il rientro di Papa Urbano V.

    Circa la città di Vienne, va ricordato che suo Arcivescovo era Thibaud de Rougement, nominato da Benedetto XIII il 17 settembre 1395. Resta a Vienne sino al 1405, quando è trasferito dal Papa a Besançon, dopo che le truppe di Thibaud hanno avuto pesanti scontri (con vari castelli bruciati), durante la guerra tra lo stesso Thibaud ed i fratelli Guy et Jean de Torchefelon che avevano rifiutato di rendergli omaggio.
    Thibaud de Rougement nel 1398 provoca un grave scontro con gli ufficiali reali di Santa Colomba, colpendo con interdetto e scomunica questo antico sobborgo di Vienne. Ne nasce una forte tensione che arriva a coinvolgere Papa e Re.
    Le fonti storiche riferiscono di «aspri conflitti» sorti fra Thibaud (che aveva anche il titolo di Conte di Vienne) e Charles de Bouville, governatore del Delfinato, per i «diritti temporali» che gli sono restituiti soltanto nel 1401, dopo un intervento regio dell'agosto 1399.
    Il 23 gennaio 1397, a Parigi, Thibaud battezza Luigi, figlio del re di Francia Carlo VI e della regina Isabella, figlia di Stefano II, duca di Baviera, e di Taddea Visconti di Milano (figlia di Barnabo).
    L'anno prima Carlo VI ha concordato con Riccardo II d'Inghilterra le nozze di quest'ultimo con la propria figlia Isabella di Valois, una bambina che nel 1400 resta vedova ad appena dieci anni d'età.


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  • 5. Notizie dalle corti


    Il primo a parlare di un ritorno di Galeotto al Papato romano è, dieci anni prima di Garimberti nel 1557, Onofrio Panvinio (1529-1568) nella «Epitome pontificum Romanorum», Strada, Venezia, p. 260.
    Secondo Panvinio, che fu agostiniano e lavorò a Roma come «corrector» e «revisor» di manoscritti presso la Biblioteca Vaticana al tempo di Pio IV, il Papa Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto: «Galeottus de Petra Mala [...] cum fido Cardinale Ravennae fugit, verum non longe post in gratiam sororis suae [...]», moglie del nipote del Pontefice, ovvero Francesco Frignano.
    Di questa moglie del nipote, e sorella del nostro Cardinale, non si hanno tracce.
    Tre sono le sorelle di Galeotto di Pietramala: Elisa morta nel 1366, Taddea che si sposa nel 1372, e Caterina che s'accasa, forse nel 1393.
    Quindi potrebbe Caterina ad esser stata coinvolta nella vita sentimentale di Francesco «Butillo». Il quale però poi prende per moglie Raimondina del Tufo, mentre Caterina va a nozze con Nicola Filippo Brancaleoni.
    Per Francesco Prignano si legge pure che a Napoli rapì da un monastero «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento» («Storia universale», XIII, Tasso, Venezia 1834, p. 131).


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  • 4. La lezione umanistica di Petrarca
    L'Umanesimo a cui guarda Galeotto è ispirato alla lezione di Francesco Petrarca. Il quale, in una lettera del 1368 a Urbano V, per esaltare il primato della cultura letteraria italiana, aveva affermato «oratores et poetae extra Italiam non quaerantur».
    La frase suscita in Francia forti polemiche. Tra il 1369 e il 1372 l'autorevole teologo dello Studio parigino Jean de Hesdin (1320-1412) compone e diffonde l'epistola «Contra Franciscum Petrarcam», consegnata all'umanista italiano soltanto nei primi giorni di gennaio 1373.
    Il 1° marzo dello stesso anno è datata da Padova la risposta-invettiva di Petrarca («Invectiva contra eum qui maledixit Italiae»).
    Dopo la morte di Petrarca (1374), il grande Scisma accentua, anche sul piano politico, la rivalità Italia-Francia, e la querelle intorno alla frase dell'umanista italiano riprende, trasformata in un topos propagandistico.
    Il momento culminante della querelle è nel breve carteggio fra Nicolas de Clamanges ed il nostro Galeotto, carteggio in parte risalente alla fine del 1394 o all'inizio del 1395, ma completamente riscritto anzi «inventato», per così dire (cfr. D. Cecchetti, «Petrarca, Pietramala e Clamages», Paris 1982, p. 18 et passim), dopo il 1420.
    Clamanges controbattendo sdegnosamente alla frase incriminata di Petrarca, traccerà una breve storia della cultura di area gallo-francese, dall'antichità classica al XII secolo, per vantarne l'assoluta preminenza su qualsiasi altra tradizione nazionale».
    La lezione umanistica di Galeotto progettava dunque un devoto omaggio alla genialità di Francesco Petrarca che non poteva non incontrare l'opposizione più accesa dei suoi amici in Avignone, per una serie di significativi motivi.
    Anzitutto, come sottolinea J. Huizinga [«Autunno del Medioevo», Firenze 1987, p. 449] il preumanesimo di illustri esponenti di quel circolo avignonese come Montreuil e Col, è legato all'erudizione scolastica medievale. Poi c'è l'aspetto biografico di Petrarca che non poteva essere proposto in quella corte, da lui accusata di corruzione nei cosiddetti «Sonetti babilonesi» (136, 137, 138), come nelle lettere «Sine nomine» e nelle Egloghe sesta «Pastorum pathos» («Le cure pastorali») e settima «Grex infectus et suffectus» («Il gregge infetto») [cfr. E. H. Wilkins, «Vita del Petrarca», Milano 2003, p. 78].
    Nell'epistola XVIII (penultima) delle «Sine nomine», si parla di vecchi e lascivi bambocci che bruciano nella libidine, precipitando in ogni vergogna, per tacere degli stupri, dei rapimenti, degli incesti, degli adulterii, «che rappresentano ormai il divertimento della lascivia papale» [«qui iam pontificalis lascivie ludi sunt»]» [«Sine nomine, Lettere polemiche e politiche», a cura di U. Dotti, Roma-Bari 1974, pp. 206-210].
    Ci sono donne rapite, «violate e ingravidate da seme altrui», poi riofferte dopo il parto «all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento», mentre i loro mariti sono costretti a riprendersi le loro mogli «per rioffrirle di nuovo, dopo il parto, all'alterna sazietà di chi le usa a suo godimento».
    Sulle «pagine densissime» delle «Sine nomine», leggiamo in Ezio Raimondi [«Un esercizio satirico ad Avignone» (1956), «I sentieri del lettore», a c. di A. Battistini, I, Bologna 1994] che esse «sorgono dalla sofferenza e dalla protesta del cristiano offeso» [p. 133].
    La lezione petrarchesca, ha scritto Loredana Chines, «lascia alle generazioni successive degli umanisti il senso di un dialogo continuo e proficuo tra un passato da riscoprire e un presente da risanare» [«L'umanesimo: caratteri generali», pp. 428-440, «Il Medioevo», XI, Milano 2009, p. 428].
    È la lezione che influenza anche Galeotto, al punto di attirargli l'accusa di non essere un buon cattolico a causa delle sue amicizie culturali, come si legge in Jean de Launoy (1603-1678), fecondo ed erudito autore francese [«Opera omnia, Opusculis ineditis...», IV, 2, Fabri, Barrillot, Bousquet, Ginevra, 1732, p. 62].


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