• «Il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto»

    Nel dicembre 1386 papa Urbano VI se ne va da Genova a Motrone, nel litorale di Pietrasanta. Alla vigilia di Pasqua 1387 entra a Lucca, restandovi sino al 22 settembre 1387. Con lui sono dieci cardinali.
    Nel frattempo a Genova, in una stalla da cavalli, sono rivenuti nove cadaveri, cinque dei quali sono dei cardinali che il papa «avea tenuti lungamente e in misera prigione» per i contrasti, mentre gli altri quattro sono di grandi prelati. Questo leggiamo nella «Cronica volgare di Anonimo Fiorentino già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti» riedita nel 1915.
    Dall'esame dei corpi, pare emergere che Urbano VI prima li fece imbavagliare, e poi sotterrare ancora vivi. Secondo altre testimonianze, li avrebbe fatti uccidere prima di farli sotterrare. Il papa si difende: volevano uccidermi.
    Sulla famiglia a cui appartiene Bartolomeo di Pietramala, si legge nella stessa «Cronica»: «Aveano quegli da Pietramala, cioè quella famiglia lungo tempo signoreggiata con le loro ladronaie tutte quelle contrade, e molestate, e rubate, e guaste. Ma la verità era, che tutte le Castella, che tenevano, erano del Comune di Arezzo, e però le vollono i Fiorentini».
    Un'altra notizia va sottolineata: nel 1385, «Bartolommeo di Mess. Magio di Pietramala a Firenze liberamente e se e le sue terre nelle mani del potere di Firenze rimette». I Tarlati nel 1335 avevano perduto il governo di Borgo San Sepolcro. Galeotto I Malatesti, il 7 luglio 1371, compra per 18 mila fiorini lo stesso Borgo San Sepolcro. Galeotto I versa la somma al fratello del papa Urbano V, quell'Anglic de Grimoard divenuto popolare come «Cardinale Anglico» quando è Legato pontificio in Italia tra 1368 e 1371, con il vicariato generale su Bologna e la Romagna dal primo marzo 1368, dopo aver retto il vescovado di Avignone (1362) e guidando dal 1367 quello di Albano.
    Anglic de Grimoard compone nel 1371 la celebre «Descriptio civitatis Bononiensis eiusque comitatus». A fianco dell'Anglico a Bologna il 5 gennaio 1368, quando prende possesso della carica legatizia, troviamo proprio Galeotto I e suo nipote Pandolfo II Malatesti, figlio del di lui fratello Malatesta Antico Guastafamiglia.
    Morto Urbano V nel 1370, l'Anglico segue il partito dell'antipapa avignonese Clemente VII (Roberto di Ginevra, 1342-1394), eletto il 20 settembre 1378, e passato alla storia per il massacro di Cesena con quattromila vittime, compiuto nel 1377 come Cardinal Legato (dal 1376) e capo dei feroci Bretoni che, guidati da John Hawkwood (Giovanni Acuto), agiscono in Romagna, per reprimere una rivolta popolare provocata dalle prepotenze dei suoi soldati.
    «Il cardinale cominciò con l'arruolare al servizio della Chiesa le bande dei mercenari bretoni di Jean de Malestroit e di Silvestro Budes, che, rimaste senza ingaggi per la stasi nel conflitto franco-inglese, minacciavano allora di devastare la valle del Rodano e la stessa Avignone (maggio del 1376)» spiega il suo biografo M. Dykmans (DBI, 26).
    Il fenomeno dei mercenari riguarda allora anche i Pietramala: «i capitani fiorentini di Arezzo si trovarono poi a dover fronteggiare le scorrerie e i saccheggi nei territori del vecchio contado da parte di bande di briganti coordinate e protette dalle stirpi signorili dell'Appennino, prima tra tutte quella dei Tarlati di Pietramala, ancora restie ad accettare l'egemonia fiorentina in quell'area» [A. Zorzi, p. 193].
    Torniamo alla pagina di Dykmans: «I contingenti di venturieri, che il cardinale di Ginevra passò in rivista a Carpentras, ricevettero per due mesi uno stipendio di 31.000 fiorini complessivi; un nuovo contratto, stipulato nell'estate del 1376, prevedeva una condotta di sei mesi ed un soldo di diciotto fiorini mensili per ogni "lancia". Preparata in tal modo la spedizione, il legato mosse quindi dalla Provenza, attraversò il Delfinato, le Alpi, la Lombardia, e si presentò nell'Emilia alla testa del suo corpo d'esercito forte di circa 10.000 uomini, preceduto da una fama di selvaggia ferocia e di efficienza militare».
    Nelle cronache bolognesi del tempo, si legge: «Come la cità de Zexena fuo metuda a sacomano e vituperata. 1377. Nota che del mese de febraro fuo comenzato uno romore in la cità de Zexena tra gli Bertoni e 'l popolo, i quali Bertoni erano soldati della Ghiexia. El chardenale de Ginevera [Roberto di Ginevra] era nella murata della dicta citade. Per la quale cosa fuoron morti de li Bertoni circha 400 huomeni e gli altri se ne fugino nella murata e mandono a Faenza per gli Inghelese che igli li desseno secorso. Ancora mandono per lo conte Alberigho da Barbiano, ch'era a Chunio con 5 lanze, a posta del marchese da Ferara. La qual zente, andata a Zexena, entrarono dentro per la murata e ucciseno molti huomeni, e molte femine sforzaron e puti picholi, e robaron tuta la citade. El popolo fugì alle mure e butavanse zoso del muro per schampare sua persona. E per questo modo remase la cità de Zexena vituperada».
    Un'altra «Cronaca», questa volta riminese, è riassumibile in questo drammatico passaggio: «Chi uccideva, chi rubava, chi vituperava, e le belle femmine ritornava dentro, e tenevasele. Sicché non rimase né uomo, né femmina in Cesena. E pigliarono più di mille mammoletti, e mammolette, e poson loro la taglia. Poi si posero a rubare la Cittade, e con le carra mandavano a Faenza tutto il miglioramento, che lì era. Poi vendevano a i Forlivesi, a i Ravignani, agli Ariminensi, a i Cervesi tutto l'altro mobile. In breve a dì XV d'Aprile non vi era rimasto né grano, né vino, né olio, se no quanto vi addicevano i montanari. […] E così fu disfatta tutta la Terra; tutti i Religiosi e Religiose furono morti, presi e rubati. E vennero in Arimino circa otto mila tra piccoli e grandi, e tutti andavano mendicando per limosina…».
    Osserva L. Tonini (IV, 1, pp. 205-206): se «Rimini rimase illesa» dalla tempesta politico-militare, lo so deve «alla prudenza, al potere, ed al merito di Galeotto». Dalla critica storica contemporanea, il sacco dei bretoni a Cesena è invece imputato a Galeotto I che «si trovò, isolato, in prima linea a difendere gli interessi ecclesiastici contro la lega fiorentino-viscontea. L'ospitalità alle truppe bretoni e il sostegno continuo garantito alla curia avignonese attirarono su di lui la pubblicistica avversaria che nel presentare la guerra contro i cattivi pastori della Chiesa come lotta di liberazione nazionale dal giogo della servitù straniera, finiva col dipingere il signore di Rimini come “gallicae tyrannidis defensor et pugil”».
    Così scrive Anna Falcioni nella premessa al volume «La signoria di Galeotto Belfiore Malatesti (1377-1400)» (1999, p. XIII).
    La sintesi più efficace di quel momento storico è in una frase che introduce il racconto degli eventi nella «Cronaca» riminese: «Odi la gran crudeltade de' Pastori de la Santa Chiesa». È lo stesso giudizio che esprime Muratori: per tutto quanto accadde, fu un «grande sparlare» contro i Ministri della Chiesa.
    Sui feroci Brettoni leggiamo negli «Annali» muratoriani: «... un troppo orribile fatto succedette nella città di Cesena, che gran discredito diede all'armi pontificie. Avea quivi messa la sua residenza il sanguinario cardinal di Ginevra Roberto; la sua guardia era di Brettoni. Nel dì primo di febbrajo perché uno di questa mala gente volle per forza della carne da un beccajo, si attaccò una rissa. La disperazione avea preso quel popolo, perché i Brettoni, dopo aver consumato tutto il distretto, erano dietro a divorar anche la Città. Trassero a questo rumore i cittadini in ajuto del lor compatrioto, e gli altri Brettoni a sostener il loro compagno. Divenne perciò generale la mischia, e più di trecento di quegli stranieri rimasero uccisi. Il Cardinale pien di furore si chiuse nella Murata, e mandò per gl'Inglesi dimoranti in Faenza, che tosto corsero a Cesena, ed ebbero ordine di mettere a fil di spada quel misero popolo. Con dugento lance vi arrivò ancora Alberico conte di Barbiano, che era al servigio della Chiesa. Corsero costoro per la terra, e fecero ben quei cittadini disperati quanta difesa poterono, ma soperchiati dall'eccessivo numero di que' barbari, non poterono lungo tempo reggere all'empito loro. Non vi fu allora crudeltà, che non commettessero i vincitori; fecero un universal macello di quanti vennero loro alle mani, senza risparmiare vecchi decrepiti, fanciulli, religiosi, ed anche donne pregnanti. Dalla loro sfrenata libidine niun Monistero di sacre Vergini andò esente; tutto in fine fu messo a sacco Chiese e case. Fu creduto che circa quattromila persone rimanessero vittima del barbarico furore; fuggirono quei che poterono; e l'Aucud , per isgravarsi alquanto da sì grave infamia, mandò un migliajo di Donne scortato fino a Rimini, ritenendo quelle, che più furono di soddisfazion di que' cani. Circa ottomila di que' miseri fuggiti si ridussero a Cervia e Rimini limosinando, perché spogliati di tutto. Grande sparlare che fu per questo de' Ministri della Chiesa. Ma né pur collo spoglio di Faenza e Cesena si saziò l'ingordigia di questi diabolici masnadieri».
    Muratori ricorda che Bernabò Visconti «per maggiormente assodare nel partito suo e de' Fiorentini, Giovanni Aucud, e il Conte Lucio Tedesco da Costanza, diede a cadaun di loro in Moglie due sue Figliuole bastarde»
    Di fondamentale importanza per comprendere l'evento cesenate e collocarlo nel contesto politico italiano, resta questa pagina di Gina Fasoli (1975): «Preoccupava particolarmente l'affermazione dell'autorità papale in Romagna; la formazione di un potere unitario e solido proprio in quei territori a cui da tempo si indirizzavano le aspirazioni politiche fiorentine e che comunque, finché erano divisi e discordi, offrivano molte possibilità di penetrazione e di sfruttamento. I timori ed i sospetti crebbero quando si profilò come imminente il ritorno della S. Sede da Avignore in Italia […]». Prima c'è l'alleanza tra Firenze ed i Visconti, poi l'opera per far ribellare la Romagna: «la repressione guidata dal cardinale Roberto di Ginevra al comando di reparti bretoni e francesi si scatenò e culminò nel massacro di Cesena (1377)».


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