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3. L'epistola «Ad Romanos»
La notizia della fuga da Avignone che leggiamo in Garimberti, non è però accettata da Stefano Baluzio (Étienne Baluze, 1630-1718) che nelle sue «Vitae Paparum Avenionensium» (Muguet, Parigi 1693) osserva: «Illum Hieronymus Garimbertus, scribit mortuum esse in monte Alvernae in summis Apennini jugis ibique sepultum in ecclesia fratrum Minorum. Errat sane dum scribit illum rediisse in gratiam cum Urbano sexto. Nam id falsum esse manifeste patet ex epistola ejus ad Romanos supra commemorata, et ex eo quod mortuus est Viennae» [col. 1364].
La falsità della notizia sulla fuga è dedotta in Baluze da quella epistola «Ad Romanos», di cui lui stesso parla alla col. 1363: Galeotto «scripsit gravem epistolam ad cives Romanos; in qua eos primo redarguit quod ipsi fuerint auctores schismatis, deinde hortatur ut eidem Benedicto, quem multis laudibus ornat, obedientiam prestent».
Se la fuga è del 1397, l'epistola «Ad Romanos» risale però a periodo di poco anteriore al dicembre 1394 [cfr. E. Ornato, «Jean Muret et ses amis: Nicolas de Clamanges et Jean de Montreuil», Genève-Paris 1969, p. 28]. Il titolo completo della lettera è: «Deflet horrendum schisma, hortaturque eos, ut adhaerendo Benedicto XIII, ipsi finem imponant».
Benedetto XIII è il Cardinale Pietro da Luna, eletto il 28 settembre 1394 con i voti di venti dei ventuno cardinali presenti ad Avignone. Era stato fatto Cardinale da Gregorio XI nel 1375. Sino al 1390 fu Legato pontificio nella penisola iberica.
Sul ruolo di Galeotto da Pietramala ad Avignone, è stato osservato che egli, per quanto fosse giovane, «exerçait une grande influence sur ses collègues et il avait même essayé de jouer un rôle de modérateur entre les deux papes» [cfr. B. Galland, «Les papes d'Avignon et la Maison de Savoie (1309-1409)», École Française de Rome n. 247, Roma, 1998, p. 334. In nota si rimanda a G. Mollat, «Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastique», 19, coll. 759-760].
Circa i rapporti fra Galeotto e Benedetto XIII, leggiamo in Franceschini: «Lo legava al nuovo pontefice una profonda stima e un'amicizia nata fin da quando aveva potuto riconoscere nel cardinale de Luna specchiata rettitudine e profonda cultura e il comune amore per gli studi di umanità e la ricerca degli antichi testi» [cit., p. 395].
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2. Una nomina, due fughe
A soli ventidue anni, l'11 settembre 1378, il «protonotario Apostolico» Galeotto Tarlati di Pietramala è creato Cardinale diacono (ovvero non sacerdote) da Urbano VI, su proposta del nonno Galeotto I Malatesti, signore di Rimini, la cui figlia Rengarda nel 1348 ha sposato Masio Tarlati di Pietramala, Magistrato municipale di Rimini dal 1346 al 1347.
L'anno prima della sua nomina a Cardinale, nel 1377, a Cesena, per volere di Gregorio XI, Pierre Roger de Beaufort (1370-1378, nipote di Papa Clemente VI [1342-1352]), quattromila cadaveri furono disseminati nelle strade e nei fossati della città (scrive l'abate Guillaume Mollat nella sua storia del Papato avignonese [«Les Papes d'Avignon, 1305-1378», Parigi 1912], p. 163), per opera dei Bretoni guidati dal terribile Cardinal Roberto da Ginevra, il quale nel 1378 diventa il primo Antipapa, con il nome di Clemente VII.
Nel 1386 Galeotto fugge da Urbano VI, prima nella Milano di Gian Galeazzo Visconti e poi ad Avignone, dove nel 1387 è nominato Anticardinale.
Un figlio di Gian Galeazzo Visconti, Giovanni Maria, nel 1408 sposerà Antonia Malatesti, figlia di Andrea Malatesti nato da Gentile da Varano e Galeotto I, il quale da Elisa della Valletta aveva avuto Rengarda, la madre del nostro Cardinal Galeotto.
Antonia Malatesti, che era quindi cugina di Galeotto, passa alla storia per il suo comportamento in occasione dell'uccisione del marito Giovanni Maria da parte di alcuni nobili di corte: lei non volle recarsi in Duomo dove era stata trasferita la salma, peraltro ignorata da tutti. L'unico omaggio al defunto fu quello di «una femina meretrice» che «tollendo una cesta de rose tutto il coperse», come si legge in un articolo di G. Barigazzi (in «Storia illustrata», n. 153, VIII, 1970).
L'astio di Antonia era una reazione al comportamento di Giovanni Maria, definito da Carlo Cattaneo «libe
tino e crudele come Nerone» (cfr. l'introduzione, p. LXXI, a «Notizie naturali e civili su la Lombardia», I, Bernardoni, Milano 1844).
Nel 1397 Galeotto si dimette da Cardinale. Nicola di Clamanges (o Clemanges), che nella celebre «Epistola XII, Mallem tibi laetiora» dà la notizia della sua scomparsa avvenuta a Vienne, infatti definisce Galeotto «nuper Cardinalis», ovvero Cardinale sino a qualche tempo addietro.
La lettera è spedita da Avignone «Ad Gontherum Colli, Galliae Regis secretarium», ovvero Gontier Col, segretario di Carlo VI e di Giovanni, duca di Berry, ed ambasciatore ad Avignone nella primavera del 1395.
Purtroppo l'avverbio «nuper», semplice ma fondamentale per documentare la vicenda biografica di Galeotto, è sfuggito agli storici moderni nella ricostruzione della sua figura attraverso l'«Epistola XII», considerata fondamentale per delineare la cultura umanistica del personaggio, con l'accenno alla sua biblioteca, i cui libri «multi erant et singulariter electi, perlibenter oblatos».
Di fuga di Galeotto da Avignone parla già nel XVI sec. un studioso ed uomo della Curia di Roma, Girolamo Garimberti (1506-1575), in «Vite, Overo Fatti Memorabili D'Alcuni Papi, Et Di Tutti I Cardinali Passati» (Giolito de' Ferrari, Venezia 1567), al cap. XXV, intitolato significativamente «Della Ingratitudine» (pp. 446-447): «essendo fatto Cardinale da Urbano, et compreso tra i suoi più confidenti e cari, si trouò a machinar contra della dignità sua, insieme con alcuni altri Cardinali, che per questo furono priuati dal Papa; per il che Galeotto insieme con Pileo de Prati Cardinale se ne fuggì in Auignone; doue da Clemente di nuouo fu restituito al Cardinalato; si come di nuouo poco dipoi facendo un'altra ribellione con fuggirsene da Clemente, fu reintegrato da Urbano, et premiato da lui di quella tanta ingratitudine; della quale meritaua di esser castigato; et con quella solità seuerità che forse haurebbe, se Galeotto non l'hauesse preuenuto con la morte nel Monte dell'Auernia, doue stà sepolto nella Chiesa de Frati Minori».
Quest'altra «ribellione» secondo Garimberti, dunque, non poté approdare al ritorno a Roma da vivo, per la scomparsa avvenuta, a suo dire, non a Vienne ma alla Verna, un luogo simbolico per Galeotto perché è quello della sua sepoltura, dapprima nella cappella «costruita sulla prima cella di san Francesco» [cfr. A. Giorgi, «Dal primitivo insediamento alla Verna dell'Osservanza», in «Atti del Convegno di Studi 2011», Firenze 2012, pp. 45-68, p. 52], poi nella «cappella della Maddalena» che avevano voluto i genitori di suo padre, ovvero Roberto (Uberto) da Pietramala e Caterina degl'Ubertini.
Questo particolare illumina sopra un altro aspetto: il trasferimento della salma di Galeotto avvenne, tre giorni dopo la morte, ovvero l'11 febbraio «sur le Rhône jusqu'à Avignon», come leggiamo in una lettera di Tieri di Benci, socio d'affari di Francesco Datini, grande mercante di Prato, a Francesco di Marco, imprenditore in una società di lanaioli.
«Da Avignone la salma del cardinale fu portata, per le terre dei Savoia e del duca di Milano, e per la Romagna, e le terre dei conti Guidi, alla Verna» [G. Franceschini, «Alcune lettere del Cardinale Galeotto da Pietramala», in «Italia medievale e umanistica», VII, Padova 1964, pp. 375-404, p. 397].
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1. Da Avignone a Costanza
Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), nominato Cardinale diacono l'11 settembre 1378, vive in uno dei periodi più tragici della storia della Chiesa di Roma, tra la «cattività avignonese» (1305-1377) ed il «Grande Scisma» (1378-1417), sfociato nei roghi del Concilio di Costanza (1414-1418), quando, in nome della Croce, si uccidono Giovanni Huss (1415) e Girolamo da Praga (1416).
Huss, professore a Praga, è eliminato nonostante il salvacondotto imperiale di cui era munito. I particolari dell'esecuzione sono terribili. Lo attaccano ad un palo e gli danno fuoco. I soldati che rinvengono il suo cuore, lo bruciano separatamente. Suo scolaro era stato Girolamo da Praga. Quelle fiamme ricordano quanto accaduto a Roma nel 1354 al corpo di Cola di Rienzo, ucciso con una stoccata nel ventre: fu prima mutilato del capo, poi appeso per i piedi alle forche e colpito per due giorni dalle sassate di scherno dei giovani, ed infine bruciato dai Giudei davanti al mausoleo di Augusto [F. Papencordt, «Cola di Rienzo e il suo tempo», Pomba, Torino 1844, p. 289].
I resti di John Wycliff morto nel 1384, di cui Giovanni Huss è stato il continuatore, nel 1428 per ordine di Martino V, saranno esumati e bruciati nella diocesi inglese di Lincoln (retta da Richard Fleming, fondatore del Lincoln College in Oxford), e le sue ceneri gettate nelle acque del fiume Clyde in Scozia, in esecuzione di un decreto emanato quattordici anni prima, dopo che i suoi libri erano stati banditi nel 1403 e bruciati nel 1415 quando lo si dichiarò eretico a Costanza.
Nell'esperienza di Galeotto come uomo di Chiesa ed intellettuale formatosi sui classici che arricchivano la sua biblioteca, c'è un elemento costante, il suo rimettere in discussione tutto, con uno spirito saldo di ribellione che lo porta a fuggire prima da Urbano VI verso Avignone nel settembre 1386; e poi dalla stessa Avignone, nel settembre 1397, verso Valence e Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398.
Papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano, successore di Gregorio XI) fa uccidere il Vescovo dell'Aquila Stefano Sidonio (1385) e cinque Cardinali (1386): Marino del Giudice, Giovanni d'Amelia, Bartolommeo di Cogorno, Ludovico Donati e Gentile di Sangro, «personaggi tutti de' più dotti e cospicui del sacro Collegio», scrive Ludovico Antonio Muratori [«Annali», sub 1385, VIII, Giuntini, Lucca 1763, p. 324]. Un altro Cardinale arrestato, l'inglese Adam Easton, si salva grazie all'intervento di Riccardo II re d'Inghilterra.
«Cette conduite d'Urbain aliénoit de lui ses plus affidez. Le Cardinal Pile de Prat Arcivêque de Ravenne, et Gouverner de Corneto, et le Cardinal Galeot Tarla de Pietra Mala l'abandonnérent alors, pour aller joindre Clement à Avignon» [J. Lenfant, «Histoire du Concile de Pise», I, Utrecht 1731, p. 55].
Proprio con Urbano VI s'inaugura la lunga stagione d'intolleranza che sfocia nei roghi "conciliari" di cui s'è detto. Urbano VI, Arcivescovo di Bari, è l'ultimo Pontefice eletto, l'8 aprile 1378, al di fuori del collegio cardinalizio. Il 24 maggio 1384 da Napoli, dove era giunto a fine settembre 1383, si trasferisce a Nocera, rifugiandosi presso suo nipote Francesco Prignano detto «Butillo» (che in spagnolo significa «pallido»). Urbano VI teme che il re di Napoli Carlo III d'Angiò Durazzo stia cospirando contro di lui, con l'aiuto dei sei Cardinali già ricordati, che fa imprigionare l'11 gennaio 1385.
Dopo l'elezione, Urbano VI pronuncia «una furibonda requisitoria contro la corruzione di Cardinali e di prelati» [F. Gaeta, «Il tramonto del Medioevo», ne «La crisi del Trecento», Bergamo 2013, pp. 280-397, p. 286]. Li insulta pubblicamente con epiteti violentissimi, e colpisce mediante provvedimenti che intaccano i loro privilegi e le loro entrate. Minaccia di scomunica i simoniaci. Richiama i Vescovi al dovere di risiedere nelle loro diocesi. Tenta di abbassare l'autorità del collegio cardinalizio nel governo della Chiesa. Sono tutti «elementi di rottura» che preludono al «Grande Scisma».
Il «soggiorno avignonese» dei Papi dura dal 1305 al 1376, iniziando con l'elezione dell'Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got (Clemente V, 1305-1314), rimasto in Francia dove allora si trovava.
Clemente V si fa incoronare il 14 novembre 1305 a Lione alla presenza di Filippo il Bello. Soggiorna prima in Guascogna, sua terra d'origine, e poi dal 1309 ad Avignone, città che apparteneva ai conti di Provenza, cioè agli Angiò, sovrani di Napoli, città governata allora da Carlo II re di Sicilia (1248-1309). Ecco perché solitamente si fa iniziare la «cattività avignonese» nel 1309, saltando la premessa del soggiorno francese di Clemente V sino a quell'anno.
Sono sei i successori di Clemente V che restano ad Avignone: Giovanni XXII, Benedetto XII, Clemente VI, Innocenzo VI, Urbano V e Gregorio XI.
Nel 1334 Giovanni XXII (in carica dal 1316), poco prima di morire il 4 dicembre dello stesso 1334, concepisce «il piano di tornare in Italia e trasferirvi la Curia, se non a Roma, città ritenuta insicura, almeno a Bologna», riscuotendo l'opposizione sia di guelfi sia di ghibellini [A. M. Voci, «Il papato avignonese», «Il Medioevo. VII», Roma 2009, pp. 98-103, pp. 102-103].
Il contesto internazionale europeo, dal settembre 1396 a tutto il 1397, è caratterizzato dalle missioni politiche a Roma di inviati dei Re di Francia, Inghilterra, Castiglia, Navarra ed Aragona: «Essi esortarono Bonifacio, e lo pregarono, che, per far cessar lo scisma, volesse rinunziare a tutt'i diritti, che pretendeva avere al pontificato; affermando che Benedetto farebbe il medesimo» [C. Fleury, «Storia ecclesiastica», XIV, Cervone, Napoli 1771, p. 325].
Bonifacio IX risponde «ch'egli era il vero, e indubitabile Papa, che non ve n'erano altri, e che non pretendea di rinunziarvi in niuna forma» [ib.].
Nell'aprile 1397 alla Dieta di Francoforte dei Principi di Alemagna, durata dodici giorni, sono presenti anche «de' Deputati della Università di Parigi, e degl'Inviati di molti Re e di altri Principi»: «si mandò a Bonifacio, per esortarlo alla cessione». Bonifacio tiene a bada «gl'Inviati con le parole, senza dar loro decisiva risposta», anzi cercando di corromperli «accordando loro contra le regole alcune grazie, che desideravano essi, e per gli amici loro» [ib.]. Per cui quegli Inviati «non poterono avanzar nulla per la cessione, ch'era il motivo del loro viaggio».
Proprio in quel settembre 1397 in cui principia la fuga di Galeotto da Avignone, il giorno 10 il Re di Castiglia risponde al Re d'Aragona (che gli aveva mandato due Ambasciatori), di essere favorevole come lo è la Corte di Parigi, alla via della cessione, «approvata da' cardinali, e desiderata da' Fedeli», rifiutando «la via del compromesso» che a Bonifacio poteva apparire non una via di diritto e di giustizia, ma una via volontaria.
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Profilo di una crisi. Edizione maggiore. Biografia di Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano".
[22.07.2016]
Creato Cardinale nel 1378, Galeotto fugge da Urbano VI nel 1386 dopo che il Papa ha fatto uccidere un Vescovo e cinque Cardinali, e va ad Avignone, da dove scappa nel settembre 1397 perché privato dei redditi riconosciutigli da Clemente VII, recandosi a Valence ed a Vienne, dove muore l'8 febbraio 1398. Avignone fu detta da Marsilio da Padova «la casa dei mercanti e l'orribile spelonca dei ladri». Per Francesco Petrarca era «la novella ed empia Babilonia da cui bisogna fuggire per salvare l'anima e la poesia». Diacono, Galeotto ebbe quale vera religione la cultura, ispirandosi alla lezione intellettuale di Petrarca. Lo testimonia la sua biblioteca, in cui erano raccolti «molti e rari libri, generosamente esibiti», come scriveva Nicolas de Clamanges, rappresentante di spicco della cultura universitaria parigina ed autore del trattato «De ruina et reparacione Ecclesie».
Premessa
Nella prima versione della biografia che ho dedicato a Galeotto Tarlati di Pietramala (1356-1398), pubblicata sul web nel maggio 2014, manca una notizia fondamentale che ho presentato successivamente (novembre 2015), e che riguarda la fuga di Galeotto da Avignone sul finire del 1397, prima a Valence e poi a Vienne, dove scompare l'8 febbraio 1398.
Galeotto scappa da Avignone perché quell'ambiente gli era diventato ostile, di pari passo all'ascesa politica dei Malatesti nel mondo pontificio romano, quando Pandolfo III (fratello di sua madre Rengarda) è nominato comandante supremo delle armi della Chiesa, e mentre un cugino di Pandolfo III, Leale, è vescovo di Rimini (1374-1400).
La fuga da Avignone, ricalca quella precedente di Galeotto stesso da Urbano VI verso la stessa Avignone, nel settembre 1386.
E sembra completare un doppio profilo, quello biografico di un Cardinale "ribelle" per restare legato al dettato evangelico; e quello storico generale, in cui si inserisce il dato personale, per cui abbiamo scelto di intitolare queste pagine appunto «Profilo di una crisi».
La biografia di Galeotto Tarlati di Pietramala richiama i principali aspetti della situazione politica europea nella seconda metà del XIV secolo, e rimanda ai fondamentali avvenimenti della Chiesa di Roma e del Papato di Avignone, sul cui sfondo interagiscono guerre, invasioni e massacri.
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La cappella del Tempio malatestiano detta delle sette Arti liberali, presenta le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali).
Essa va "letta" con alcune precauzioni di metodo.
Le materie sono Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio").
Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure.
Noi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto.
Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia.
Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica.
Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica.
L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della Cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola.
Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa.
Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa.
In quest'ultima striscia (F) con la Concordia, la Città giusta, e la Scuola, si dimostra che le «arti liberali» rendono possibile la conquista della libertà come situazione in cui poter realizzare un'armonica convivenza fra gli uomini, e potersi affermare nella società secondo quanto insegnato da Leonardo Bruni con il suo «umanesimo civile».
Le arti liberali inoltre sono ritenute uno strumento per realizzare un'età nuova attraverso lo studio delle «humanae litterae», alle quali Poggio Bracciolini attribuisce un valore formativo umano e civile, considerando i classici come maestri di virtù civili.
Vale la lezione petrarchesca della ricerca della «sapientia» che era stata rivolta a far risorgere la «misera Italia».
Trionfa l'assunto di Coluccio Salutati per il quale gli «studia humanitatis» sono uno strumento per formarsi quali diffusori delle «virtù civili».
E s'intravede il motto albertiano per cui «tiene giogo la fortuna solo a chi gli si sottomette».
In questa "immagine" riminese si raccoglie e sviluppa quella che Eugenio Garin ha chiamato «la conquista dell'antico come senso della Storia», con gli elementi tipici del «primo Umanesimo» che fu esaltazione della vita civile non ancora dominata dalle Signorie.
Ed il fatto che proprio un Signore come Sigismondo offra questa "immagine" di libertà nel suo Tempio, va letto semplicemente quale contrapposizione al potere ecclesiastico.
L'immagine della Città giusta dell'ultima striscia (F) merita un approfondimento.
La figura femminile in essa rappresentata, regge con la mano sinistra l'archipendolo, «lo strumento che simbolicamente tutto eguaglia», come scrive Vittorio Marchis in «Storie di cose semplici» (Milano, 2008, p. 46).
Altre più antiche testimonianze collegano l'archipendolo alla figura di Nèmesi, che con esso misura «la rettitudine delle umane operazioni» (cfr. G. Minervini, «Vaso dipinto di Ruvo», in «Accademia Pontaniana», Fibreno, Napoli 1845, pp. 81-87, 85).
Nèmesi nella mitologia greca e latina rappresenta la «giustizia distributiva» che punisce chi oltrepassa la giusta misura.
Secondo Aristotele, la «giustizia distributiva» impone che «gli eguali siano trattati in modo eguale e gli ineguali in modo ineguale, cosicché la polis dovrà distribuire oneri e benefici in modo proporzionale» (M. Rosenfeld, «Enciclopedia delle Scienze Sociali», 2001)
Vittorio Marchis (p. 47) spiega poi che l'archipendolo resta «simbolo di equilibrio sino a tutta l'età barocca», come testimonia il suo inserimento nell'«Iconologia» di Cesare Ripa (apparsa a Roma nel 1593).
Da Cesare Ripa riprendiamo due spunti. A noi dalla cultura egizia deriva che, per ritrovare il giusto di una cosa, occorre raddrizzarla come fa l'Archipendolo (p. 456 dell'ed. veneziana del 1645).
L'Archipendolo «per similitudine» insegna che, «rispetto alla rettitudine e all'uguaglianza della ragione», la virtù «non pende à gl'estremi, mà nel mezzo si ritiene» (ib., p. 191).
Nella mano destra, infine, la Città giusta regge la «canna», simbolo delle regole morali e delle Leggi della giustizia divina.
Sul pensiero di Aristotele in tema di giustizia, cfr. il testo di L. Guidetti e G. Matteucci, «Grammatiche del pensiero», Bologna 2012, passim.
Il contesto degli antefatti.
Per ciò che potremmo chiamare il contesto degli antefatti, inseriamo alcune notizie collegate al nostro tema.
Di «città giusta» parla nella sua «Laudatio Florentinae urbis» (1404) il Cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, richiamandosi ad Aristotele, come osserva Eugenio Garin, nel saggio «La città ideale» (cfr. in «Scienza e vita nel Rinascimento italiano», Bari 1965, pp. 33-56).
Bruni, contro il mito di Roma, presenta Firenze quale modello ideale di una «città giusta, bene ordinata, armoniosa, bella». Bruni spiega che la città per essere libera dev'essere giusta, con leggi razionali.
Per quanto ci riguarda, aggiungiamo soltanto che l'Alberti "riminese" del Tempio di Sigismondo, era di famiglia fiorentina.
Secondo elemento. Come scrive F. Alessio, con l'Umanesimo «compare ex novo quel Platone che il grande ignoto della cultura delle scholae» (cfr. «Il pensiero filosofico», in F. Brioschi e C. Di Girolamo, «Manuale di letteratura italiana», I, Torino 1993, pp. 45-80, p. 77).
Platone aveva sostenuto che Giustizia nella Città è assolvere per essa il compito per il quale la Natura ci ha resi adatti («Repubblica», IV).
Come si legge nel «Dizionario filosofico» di N. Abbagnano (1971), la Giustizia «produce accordo ed amicizia», secondo Platone. Il quale ci spiega che per raggiungere la Giustizia dobbiamo avere una vista penetrante, capace di distinguere le parole scritte in carattere minuscolo (che corrispondono alla Giustizia dell'individuo), da quelle che sono scritte in grande, ovvero della Giustizia e delle altre virtù scritte (Cfr. R. Radice, «Platone», Milano 2014, pp. 87-88).
Infine, apriamo il primo volume de «I sentieri del lettore» di Ezio Raimondi (Bologna, 1994, p. 208) dove troviamo la memoria di una crisi bolognese. Ne parla Lapo di Castiglioncello, attorno al 1430.
Inaugurando il suo corso universitario di Eloquenza, egli sostiene: si vive in tempi miseri e luttuosi, ai quali occorre reagire con l'ideale dell'uomo «saggio, forte, liberale e temperante», e con il progetto di affidare ai «boni viri» la difesa della comunità dalle «rivolte, dalle guerre civili, dagli omicidi, dalle rovine pubbliche».
Lapo dimostra così «fede nella rinascita di un mondo morale connesso ai valori più profondi della sapienza antica», osserva Raimondi.
Infine, va ricordato che, già dai primi decenni del Quattrocento, avviene «una generale riorganizzazione del sistema educativo e dei saperi in chiave storica e antiteologica», per cui la «storia» è «in una volta, comprensione del tempo trascorso e modello del presente» (cfr. N. Gardini, «Rinascimento», Torino 2010, pp. 15, 126).
Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati.
In tutte le immagini è compendiato un programma pedagogico di impronta umanistica: per formare una società rinnovata dalla concordia, si parte dallo studio della natura. In tal modo è eclissata la teologia. Ecco la rivoluzione di Sigismondo e del suo circolo di intellettuali ed artisti, che tanto dispiacque a Pio II.
Il tema della città nuova si collega a quello della «città ideale» proposto dalla famosa opera della scuola di Piero della Francesca, dietro la quale ci sarebbe invece la mano del progettista del tempio riminese, Leon Battista Alberti, autore del "De Re Aedificatoria" (cfr. G. Morolli, "La vittoria postuma: una città niente affatto 'ideale'", ne "L’Uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze fra Ragione e Bellezza", Firenze 2006, pp. 393-399).
La «concordia dei cittadini» d’ispirazione ciceroniana, è citata in un proverbio latino: «Concordia civium murus urbium». Di qui il collegamento allegorico tra la stessa concordia e l’arte edificatoria.
Per la Mitologia si può rimandare a Macrobio che la chiama «narratio fabulosa»: «haec ipsa veritas per quaedam composita et ficta proferetur» ("Commentarii in somnium Scipionis", 2, 7).
Nel Tempio Malatestiano ci sono due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo.
Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci.
Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102).
Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico per la cappella delle Arti liberali.
Secondo Anthony Grafton, è Ciriaco a comporre le epigrafi riminesi, ispirandosi a quelle napoletane da lui trascritte ("Leon Battista Alberti. Un genio universale", 2003, p. 315).
A proposito della figura dantesca di Ulisse, è utile rileggere quanto osservato da Ezio Raimondi ("Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale", 2004, pp. 190-191): "... l'avventura di Ulisse è anche l'avventura vitale di Dante scrittore in esilio". Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi si riferisce alla lettera XV, libro XXI delle "Familiares", diretta a Boccaccio. In cui leggiamo questo passo: "In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni tam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est". ("E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio.")
Il punto di Petrarca "non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas", rimanda al c. XXVI, vv. 94-97 dell'"Inferno" dantesco: "Né dolcezza di figlio, né 'l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta....".
Ecco quindi il citato giudizio di Raimondi: Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi prosegue: "L'Ulisse di Dante è una controfigura negativa di Dante stesso. Presenta, sul piano dell'azione di colui che esplora l'ignoto, qualcosa che per Dante rappresenta la sua stessa operazione poetica, e che Petrarca individua subito".
Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio.
Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694).
A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese, con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727. Il ritardo di tanti anni significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro di esse mette in guardia Franco Bacchelli in un saggio prezioso (2002).
Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri".
Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che sul finire del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani ed echi pagani.
Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella (scomparsa) Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.
Il dato locale di Rimini va però inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".
La Biblioteca dei Malatesti in San Francesco, a fianco del Tempio, è la prima pubblica in Italia, e modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio.
Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella di San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solario, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: nel testo latino non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa", legato alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse culturale verso il tema dell'Umanesimo riminese.
Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi.
Alle pagine sull'Umanesino riminese. Indice.
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