• Sigismondo 1417

  • Il tempio di Sigismondo è un sogno umanistico, un ponte ideale con il passato. La fiancata destra che guarda verso Roma, ospita i sarcofagi di studiosi e letterati per dimostrare quel sogno che fa della cultura l'habitat naturale di una corte e della vita cittadina. Su entrambe le sue fiancate, l'adattamento di una celebre iscrizione greca di Napoli attesta l'alta cultura presente in àmbito malatestiano riminese.
    Alberti umanista, ha scritto Ezio Raimondi (2003), reinventa la romanità nel tempio di Sigismondo con una "dimensione grande" che, proponendosi come risposta "alla miseria dell'uomo", "rinasce con un volto tutto riminese, adattata a un territorio in cui la pietra si porta dentro anche il senso dell'acqua".
    Il bassorilievo interno con la prima immagine di Rimini, ha un grande vascello che idealizza il destino mediterraneo della città.
    A Sigismondo, Pio II suo acerrimo nemico riconosce i pregi di un valente umanista: "novit historias, philosophiae non parvam peritiam habuit". Il filologo Giovan Mario Filelfo lo chiama "doctissimorum amantissimus, vetustatis diligentissimus, et inquisitor, et cultor". Roberto Valturio, dedicandogli il De re militari, scrive che a lui si debbono i lineamenti delle immagini del tempio, ricavati "ex abditis philosophiae penetralibus".
    Offuscato in vita dalle calunnie degli avversari, Sigismondo filosofo umanista vive ignorato nel suo tempio, dove limpidamente si offre la generosità del suo libero intelletto attratto dall'antica sapienza.
    I suoi rivali sgretolarono la grandezza di un'esperienza che nel monumento rispecchia l'intero mondo mediterraneo in cui greci, romani ed arabi avevano costruito una cultura universale. Il tempio racconta il senso della continuità storica del bacino mediterraneo, fatta di sintesi unificatrice che privilegia l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune.
    Di questa continuità storica, Sigismondo porge altra prova quando alla biblioteca monastica francescana progettata dallo zio Carlo Malatesti, dona "plurima denique sacrorum ethnicorumque librorum ac omium optimarum artium volumina". Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del "De rerum natura", da Seneca a sant'Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue "Vitae" degli antichi filosofi.


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  • La "genuina anima religiosa" del Tempio malatestiano è ribadita in un volume ad esso intitolato, prezioso ma dimenticato, apparso nel 1951 dopo il restauro postbellico chiuso l'anno prima, del canonico riminese don Domenico Garattoni (1877-1967). Intellettuale raffinato, egli debutta nel 1896 con una raccolta di versi in cui leggiamo anche l'incontro con una "vezzosa e pia" monaca apparsa tra i cespugli di una siepe come "un bocciuol fresco di rosa".
    Fu seguace di don Romolo Murri e del suo movimento democratico-cristiano, poi aderì al fascismo (1922) come lo stesso Murri (sospeso 'a divinis' nel 1907 e scomunicato nel 1909). Nel 1922 Garattoni fu costretto a dimettersi da direttore del settimanale cattolico "L'Ausa". Considerò il movimento di Mussolini una reazione sana ed accettabile alla violenza socialista. (Cfr. P. Donati, E. Grassi, P. Grassi, G. Tonelli, 2015.)
    Nella prima parte del volume intitolata "Tempio diffamato quanto famoso", Garattoni ripercorre criticamente, togliendo loro ogni credito storico, le opinioni che ne fanno un monumento eroico, erotico ed eretico.
    Per difendere la natura cristiana del Tempio, Garattoni attacca papa Pio II che aveva scomunicato Sigismondo per motivi non religiosi ma politici, volendo insediare a Rimini un nipote, Niccolò Piccolomini. Favole e frottole, Garattoni definisce gli attacchi al Tempio che è "genuinamente sacro e cristiano nel suo contenuto", ed ispirato alla filosofia degli Umanisti che con essa "abbracciavano tutto lo scibile, tutta la cultura dello spirito, con la quale ambivano sollevarsi al disopra del volgo". Per Alberti aggiunge: era prete, canonico, priore, prelato ed abbreviatore apostolico negli uffici pontifici, e non fu mai accusato o sospettato di eresia.
    Circa l'accusa di tempio erotico, Garattoni ricorda che "di Isotta nel Tempio non vi è che il suo sepolcro". Isotta fu donna "gentile e forte, animosa e saggia", che calmò le terribili tempeste di Sigismondo, uomo "feroce". L'amore di lei fu una fortuna per lui, ma "per essa fu sacrifizio".
    Il volume si chiude ricordando la distruzione bellica del Tempio e la sua ricostruzione, con sullo sfondo l'immagine del dolore della Storia: "Chi ci ha liberati ha lasciato qui, in questa terra di Romagna, migliaia dei suoi morti che noi religiosamente custodiremo. Sangue versato, vite immolate, nulla di più sacro per riconciliare, affratellare" popoli che si erano combattuti.


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  • Il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi (sacerdote e direttore della Biblioteca Gambalunghiana dal 1678 al 1694) nel 1718 contesta il padre francescano Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, accusandolo di aver scritto nel 1628 calunnie contro il Tempio. Wadding sostiene che Sigismondo dedica il Tempio a san Francesco, ma lo riempie di immagini con miti pagani e simboli profani, aggiungendovi un mausoleo per la sua amante con un epitaffio pagano: "Dedicato alla divina Isotta".
    Pio II aveva accusato Sigismondo d'aver ripudiato la prima moglie, avvelenata la seconda, strangolata la terza. Garuffi difende Sigismondo: la prima moglie era la figlia del Carmagnola, egli rifiutò di sposarla dopo la condanna a morte del futuro suocero (1432). Per Ginevra d'Este, la seconda (ma in realtà la prima ad essere impalmata), il sospetto di una morte per veleno fu diffuso dai parenti del Carmagnola. Circa Polissena Sforza, Garuffi spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito "per giusta ragione di Stato" avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito, "alcuni militari segreti del consorte". Infine Garuffi scrive che Isotta era stata sposata da Sigismondo, quindi non era sua amante.
    Garuffi passa alla difesa del Tempio, con la descrizione delle singole cappelle, riservando la conclusione al problema della scritta sulla tomba d'Isotta: "D. Isottae Ariminensi B. M. sacrum. MCCCCL". Quel "D." sta ad indicare "Dominae" e non "Divae" come aveva interpretato Wadding. Ma se anche fosse come proponeva lo storico francescano, spiega Garuffi, non ci sarebbe nulla di male, perché chiamare "diva" Isotta significava soltanto usare un titolo degno per la moglie di un principe, senza alcun "sentore di gentilesimo", cioè di paganesimo. (Sul "B. M." gli studiosi si sono sbizzarriti: beata o buona memoria, oppure benemerita.)
    Fortunatamente Wadding non sapeva quanto scoperto nel 1912 da Corrado Ricci. La discussa iscrizione per Isotta era stata sovrapposta ad un'anteriore, ancora più compromettente: "Isotae ariminensi forma et virtute Italiae decori. MCCCCXLVI". Era di un'audacia scandalosa quel "decoro d'Italia" riservato ad una giovinetta come Isotta che aveva circa tredici anni nel 1446, quando fu sedotta da Sigismondo mentr'era ancor viva la moglie Polissena.
    Isotta nello stesso anno concepì da Sigismondo un figlio, Giovanni, che morì in fasce il 22 maggio 1447.


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  • I bassorilievi della Cappella dei Pianeti mostrano la convinzione di Sigismondo che "è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri", scrive Franco Bacchelli (2002). Il quale osserva che si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del "De re militari" di Roberto Valturio, nella quale si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia".
    Bacchelli riporta "la fulminante diagnosi espressa" da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, nel quale leggiamo: "Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica, anche nella forma allora e poi normale dell'astrologia giudiziaria".
    Il principio per cui bisogna ricercare nei cieli la causa dei fatti, aggiunge Baccheli, era "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine del XV secolo "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
    Per Pico il disordine del mondo deriva soltanto dalle imperfezioni del mondo stesso. Egli considera l'uomo come creatura dalla natura illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente così al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso può sì "degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti", ma può anche rigenerarsi "nelle cose superiori che sono divine".
    Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro Tempio, dove esso però soccombe davanti all'immagine del Cristo Crocefisso che svela agli occhi semplici di ogni cristiano la natura folle di quel sogno.
    San Tommaso aveva scritto che "contro l'inclinazione dei corpi celesti l'uomo può operare con la ragione".
    Nel canto XVI del "Purgatorio", Marco Lombardo spiega la teoria del libero arbitrio con tre versi che sono centrali nel poema dantesco e rimandano alla teologia di san Tommaso: "A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura" (79-81). Marco Lombardo dichiara che gli uomini solitamente attribuiscono quel male "al cielo", togliendo all'uomo il libero arbitrio e la giustizia nel premiare o punire i nostri comportamenti.


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  • Nella facciata del Tempio malatestiano c'è "l'arco trionfale della romanità laica e profana" (M. Guerra, 2007). Il richiamo al passato è un manifesto culturale che nasce dall'insegnamento degli umanisti. Ad "un rifiuto radicale delle linee politiche e culturali di una storia di decadenza moderna", si contrappone "l'instaurazione di altre forme di moralità, di un diverso rapporto con la società e con la natura" (C. Vasoli 2012), con il recupero degli esempi classici degli antichi.
    Contemporaneo al Tempio è un testo di Giannozzo Manetti (1396-1459) in cui si celebra l'eccellenza dell'agire umano, così come Alberti fa nel "Libro della famiglia" lodando chi trova "nella buona e santa disciplina del vivere" una sicura regola di comportamento pubblico e privato (C. Vasoli).
    Il mito umanistico della "rinascita", ispirato ad una morale fortemente laica e borghese, si esprime nelle forme della tolleranza e della sintesi, scrive Marta Guerra. Pio II papa dal 1458 affida il proprio programma intellettuale alla realizzazione di Pienza, "città ideale", esempio di un Umanesimo urbanistico. Ciò, aggiungiamo, non gli impedisce di scontrarsi con l'umanista Sigismondo, a dimostrazione di quanto sia contraddittoria l'esistenza umana.
    Ezio Raimondi, ad un convegno riminese del 2001, spiegava che nell'Alberti umanista "è centrale la dimensione problematica, l'interrogazione sulla vita dell'uomo, fatta non solo di dignitas, ma anche di miseria".
    Senza prudenza non c'è vera sapienza, secondo Coluccio Salutati (1331-1406), cancelliere della Repubblica fiorentina dal 1375 alla scomparsa. E la vera sapienza è quella che procura il bene comune, e permette a tutti di accedere alle cariche pubbliche. Questa dimensione non è presente nella biografia di Sigismondo, ma si può intravedere nella parte esterna del suo Tempio, dove sono collocate quattro tombe di "prestantissimi Poeti e Filosofi": Basinio Parmense, Giusto de' Conti, Gemisto Bizantino e Roberto Valturio (L. Tonini, 1864). La quinta tomba ospita due medici di Casa Arnolfi. La sesta è dedicata a Sebastiano Vanzi, sepolto ad Orvieto di cui fu vescovo. La settima fu concessa al medico Bartolomeo Traffichetti.
    Il "Gemisto Bizantino" non sarebbe il noto filosofo Giorgio Gemisto Pletone del sec. XV, ma un altro pensatore del sec. IV, essendo stato rinvenuto (1757) nella tomba non il corpo intero di un defunto del 1451, ma uno scheletro scomposto in un panno di lana rossa.


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