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7. Sigismondo il filosofo guardava ai pianeti celesti
I bassorilievi della Cappella dei Pianeti mostrano la convinzione di Sigismondo che "è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri", scrive Franco Bacchelli (2002). Il quale osserva che si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del "De re militari" di Roberto Valturio, nella quale si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia".
Bacchelli riporta "la fulminante diagnosi espressa" da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, nel quale leggiamo: "Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica, anche nella forma allora e poi normale dell'astrologia giudiziaria".
Il principio per cui bisogna ricercare nei cieli la causa dei fatti, aggiunge Baccheli, era "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine del XV secolo "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Per Pico il disordine del mondo deriva soltanto dalle imperfezioni del mondo stesso. Egli considera l'uomo come creatura dalla natura illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente così al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso può sì "degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti", ma può anche rigenerarsi "nelle cose superiori che sono divine".
Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro Tempio, dove esso però soccombe davanti all'immagine del Cristo Crocefisso che svela agli occhi semplici di ogni cristiano la natura folle di quel sogno.
San Tommaso aveva scritto che "contro l'inclinazione dei corpi celesti l'uomo può operare con la ragione".
Nel canto XVI del "Purgatorio", Marco Lombardo spiega la teoria del libero arbitrio con tre versi che sono centrali nel poema dantesco e rimandano alla teologia di san Tommaso: "A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura" (79-81). Marco Lombardo dichiara che gli uomini solitamente attribuiscono quel male "al cielo", togliendo all'uomo il libero arbitrio e la giustizia nel premiare o punire i nostri comportamenti.
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