• 1461 Venezia contro Rimini

    Sigismondo1461, le spie della Serenissima contro Rimini
    Come fallì la missione di Matteo de' Pasti a Maometto

    Nella precedente puntata abbiamo visto che Maometto II, tramite l'ambasciatore veneto in Egitto Girolamo Michiel, nel 1461 chiede a Sigismondo Pandolfo Malatesti il favore d'inviargli un artista che lavorava allora a Rimini, Matteo de' Pasti, per farsi ritrarre.
    Michiel aveva ricevuto l'incarico di recarsi in Egitto il 7 luglio 1460. L'incontro con Maometto avvenne forse nello stesso anno «perché si sa che il Gran Turco stette lontano da Costantinopoli parecchi mesi nel 1461 per la guerra contro le popolazioni ribelli dell'Asia Minore e delle regioni finitime al Mar Nero, e nella sua capitale fece solenne ritorno solo il 6 ottobre». Così scriveva nel 1909 Giovanni Soranzo, aggiungendo: «Solo dopo questo avvenimento poté allontanarsi Matteo de' Pasti da Rimini alla volta di Costantinopoli».

    Matteo amico
    degno di fiducia
    Il veronese Matteo de' Pasti abitava da quasi vent'anni a Rimini, lavorando come «valente direttore dei lavori» nel nostro Tempio. «Più volte aveva avuto l'invito di potenti e illustri principi italiani di recarsi alla loro corte, dove gli si promettevano onori e ricchezze», spiega Soranzo, «ma per compiacere Sigismondo suo mecenate e signore, aveva rifiutato». Un concittadino di Matteo de' Pasti, il canonico lateranense Matteo Bosso che fu a Rimini nel 1457, scrisse che lo stesso de' Pasti occupava un posto distinto nella corte malatestiana. Nella lettera credenziale che Sigismondo fa comporre in latino da Valturio per Maometto, Matteo de' Pasti è definito suo assiduo compagno ed amico, artista mirabile, diligente in ogni lavoro, degno di somma fiducia, dotato di una modestia singolare e di una non comune erudizione.
    Probabilmente la partenza da Rimini di Matteo de' Pasti avviene verso la fine dell'ottobre 1461. Egli porta con sé per Maometto II non soltanto la lettera latina di Valturio e una copia del «De re militari» dello stesso Valturio, ma pure un'opera propria, come scoprì Augusto Campana nel 1928, citando un cronista contemporaneo di Sigismondo, il forlivese Giovanni di Pedrino. Si trattava di una carta di tutta l'Italia «de sua mano disegnada». Il cronista annotò che essa serviva «per informare el Turco del paexe d'Italia per monte e per piani e per terra e per aqua». Lo scopo nascosto sia del viaggio sia del dono della carta veniva identificato dal cronista forlivese nella volontà del signore di Rimini di chiamare Maometto in suo soccorso contro il papa, il quale stava facendo grande guerra a Sigismondo considerandolo uno scomunicato.

    La cattura
    e il processo
    Matteo de' Pasti nel novembre 1461 è catturato in Candia e invece d'essere condotto a Costantinopoli è trasferito a Venezia: «esaminato e forse sottoposto alla tortura dal Consiglio dei Dieci, fu giudicato innocente e liberato il 2 Dicembre», spiega Soranzo in una sua celebre opera del 1911 («Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti 1457-1463», p. 272). Al Consiglio dei Dieci (che creando un regime di terrore salvaguardò l'istituzione oligarchica), facevano capo anche le spie della Serenissima, sparpagliate dappertutto. La scarcerazione di Matteo de' Pasti significava la sua innocenza, secondo Soranzo (1909): avrebbe subìto un diverso trattamento, oltretutto quale suddito della Repubblica, se ci fosse stata in qualche modo la certezza che egli «era complice di un'impresa che non solo metteva a repentaglio  i più sacri interessi della Cristianità, ma minacciava gravemente la potenza, l'incolumità dei dominii coloniali e la prosperità dei traffici della Regina dell'Adriatico». L'innocenza di Matteo de' Pasti è di conseguenza un'assoluzione per Sigismondo, ritenuto il mandante della missione politica presso il Turco. Soranzo aggiunge che il papa non fa mai parola della presunta colpa del Malatesti né nelle bolle di scomunica né nei propri scritti. Inoltre ne tacciono i pubblici documenti di Milano, Venezia, Firenze e Mantova. Ed infine i contemporanei quando parlavano dei misfatti di Sigismondo non accennavano a «qualsiasi tentativo di accordo» con Maometto II.

    Interviene
    lo Sforza
    Nel 1910 Soranzo pubblicò una lettera che il 10 novembre 1461 Antonio Guidobono scrisse da Venezia al duca di Milano Francesco Sforza, di cui era agente nella città lagunare, informandolo della missione di Matteo de' Pasti inviato a Costantinopoli dal «Signor Sigismondo» per esortare il Turco a venite in Italia. Guidobono suggeriva allo Sforza d'informare il papa del contenuto della missiva. (Sigismondo nel 1441 aveva sposato Polissena Sforza, figlia di Francesco, morta nel 1449). Sforza diffonde la notizia a Napoli, Roma e Parigi. Prima scrive ad Antonio da Trezzo suo ambasciatore presso Ferdinando I d'Aragona re di Napoli. In questa lettera lo Sforza dice che la richiesta al Turco corrispondeva agli «usati costumi» di Sigismondo, ovvero «cercare cose nuove».
    Il 24 novembre lo Sforza informa Ottone del Carretto, suo ambasciatore presso la corte pontificia inviandogli anche copia della lettera di Guidobono con l'ordine di leggerla al papa senza citare chi ne fosse l'autore e da dove fosse giunta. Il 26 lo Sforza si rivolge anche ai tre rappresentanti che ha presso la corte di Parigi, Tommaso da Rieti, Lorenzo Terenzi da Pesaro e Pietro Pusterla. L'accusa contro Sigismondo è al centro di altri documenti. Ottone del Carretto da Roma risponde allo Sforza il 5 dicembre. Lo stesso giorno il messo dei Gonzaga a Roma, Bartolomeo Bonatto ne scrive a Lodovico marchese di Mantova, precisando che Mattia de' Pasti recava con sé «el colfo disignato», cioè quella carta di cui parla il cronista forlivese Giovanni di Pedrino.

    Penosa
    impressione
    Come commenta Soranzo (1909), la notizia della cattura del messo di Sigismondo si diffuse in tal mondo «per tutta Italia». «L'impressione fu dovunque penosissima: persino a Venezia, dove il Malatesti aveva i migliori amici e godeva grandi simpatie; a Roma poi esultarono i suoi nemici, i quali accoglievano con facile soddisfazione questa novella e stimolavano il papa a volerla finire con quell'infame nemico del nome cristiano». Bartolomeo Monatto e Ottone del Carretto raccontano nei loro dispacci le reazioni romane e veneziane. Ottone osserva prima che il papa era già stato informato «per altra via et in questa corte è divulgata questa cosa et ogniuno ne dice male». In altro testo del 2 gennaio 1462 aggiunge che il papa è più che mai deciso a colpire Sigismondo con la «sententia» (ovvero scomunica maggiore, interdetto e privazione del vicariato), ritenendo raggiunta la prova con l'arresto di Matteo de' Pasti che lo stesso signore riminese aveva cercato di contattare il Turco, «ad invitarlo et confortarlo a venire in Italia».
    Il papa ottiene da Venezia di potere esaminare il libro sequestrato a Matteo de' Pasti. Tardando la sua restituzione, il governo della Serenissima il 13 aprile 1463 solleciterà il pontefice a  consegnarglielo. Il papa il 5 giugno 1462 rimprovera a Borso d'Este duca di Modena vari torti, tra cui i favori fatti al nostro Sigismondo il quale «Turcorum impiam gentem studuit advocare». Commenta Soranzo (1909): Pio II aveva un desiderio di vendetta contro Sigismondo e per questo «da più mesi manteneva una guerra forte e resistente» contro di lui.
    Ad accusare Sigismondo c'era una testimonianza del 4 settembre 1461, cioè precedente la partenza di Matteo de' Pasti: Galeotto Agnense luogotenente di Pesaro scriveva a Francesco Sforza che Sigismondo «ha incominciato a dire che poi chel re fa venire Scandarbeco cheesso mandarà per lo Turco». Ovvero se l'Aragonese aveva invitato in Italia il prode albanese Giorgio Scanderbech ad aiutarlo, Sigismondo avrebbe chiamato Maometto. Quella del Malatesti era una minaccia o una spavalderia? Conclude Soranzo che era insussistente l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo, mancando validi argomenti per sostenerla.

    La leggenda
    del 1462
    Contro il signore di Rimini nacque una seconda, infondata leggenda: d'aver tentato di ripetere nel 1462 la missione presso Maometto II. Alla fine di quell'aprile, racconta Soranzo, si spargeva la voce del nuovo viaggio d'un suo messo, ser Rigo, ovvero Enrico Aquadelli (siniscalco e maggiordomo della corte riminese). Nasce da Pesaro la soffiata per mano di Niccolò Porcinari da Padule, governatore provvisorio della città, che il 29 aprile ne riferisce in termini non certi al duca di Milano.
    Ser Rigo, spiega Porcinari, il giorno 28 si rifiutò di partire perché la luna era in combustione. Il giorno prima Roma aveva pubblicato la notizia della «terribile scomunica» contro Sigismondo. Ser Rigo partì successivamente? Impossibile, spiega Soranzo (1910), perché il 27 aprile 1462 Sigismondo accredita Ser Rigo presso il duca di Milano. Che lo ricevette il 16 maggio, ricevendone in omaggio una copia del «De re militari», lo stesso titolo che Sigismondo aveva prescelto per Maometto II come biglietto da visita. Lo Sforza veniva consultato da Sigismondo per ricevere suggerimenti come comportarsi con il papa. La risposta del duca di Milano fu: umiliarsi e chieder perdono.
    Ma ormai era tardi. Il 26 aprile 1462 tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono bruciati in tre punti diversi di Roma, ed il giorno seguente il papa emana la bolla Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini, inaugurando quella «leyenda negra» su di lui, che ritorna successivamente. (Leandro Alberti nella Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa, 1550, definisce Sigismondo «valoroso capitano de i soldati», ricalcando quanto scritto da Pio II «che narra i suoi vitij, et opere mal fatte». Lo stesso fa negli Annali Francescani del 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), chiamando Sigismondo uomo da ricordare più per le doti del fisico che per quelle dello spirito, per aver condotto una vita che nulla aveva avuto di cristiano.)
    Con la scomunica il papa vuole fermare Sigismondo che, come ha scritto Anna Falcioni, era «sostenuto dalla diplomazia francese e dall'arrivo di nuovo denaro», e stava preparando con il principe di Taranto un piano per impossessarsi di Pesaro ed attaccare Urbino. Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana lascerà allo «splendido» Sigismondo (così lo chiama Maria Bellonci) una città privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune. Al triste declino, Sigismondo tenta d'opporsi come condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. Chiede una raccomandazione presso il papa. Venezia lo accontenta, anche per giustificare con Pio II la propria scelta: non si trovava chi volesse accettare il mandato. La condotta di Sigismondo non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistrà, l'antica Sparta capitale della Morea, nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna. Se Pio II non fosse già morto il 15 agosto 1464, Sigismondo avrebbe fornito al papa forti motivi per un'altra condanna.
    Antonio Montanari

    Al precedente articolo sul tema:

    Sigismondo il «terrorista»
    Fu accusato nel 1461 di spingere Maometto II contro Roma.

    Archivio Malatesti.



    Tags Tags : , ,
  • Commentaires

    Aucun commentaire pour le moment

    Suivre le flux RSS des commentaires


    Ajouter un commentaire

    Nom / Pseudo :

    E-mail (facultatif) :

    Site Web (facultatif) :

    Commentaire :